L'omicidio di Befaro

seconda parte

 

Erano verso le 19 del 30 marzo 1922. Domenico Simonetti aveva appena finito di cenare e si era seduto davanti al focolare, accendendosi una pipa. Sentì bussare alla porta di casa ed andò ad aprire, chiedendosi chi potesse essere a quell’ora tarda. Chiese: “Chi è?”. La risposta fu: “Sono io.”. Riconobbe la voce di Achille Orsetti ed aprì. Vedendo che insieme ad Orsetti c’erano i fratelli Francesco e Giuseppe e suo nipote Giovanni, mostrò la sua meraviglia. Li fece entrare e offrì loro una sedia. Rimase in piedi solo Domenico. Orsetti offrì del tabacco a Domenico, che accettò. Domenico, Giuseppe e Achille accesero le loro pipe con la brace del camino, poi Orsetti disse: “Torno adesso da Castelli, con una lettera spedita dall’America a mio nipote”. Poi prese a ricordare a Domenico di quando tutti e due volevano andare in America e delle buone relazioni che c’erano sempre state tra di loro. “Anche io come te” aggiunse “dopo essere tornato dall’America ho avuto dei contrasti d’interesse con i miei fratelli e proprio tu mi hai aiutato ad appianarli. Fai anche tu lo stesso con i fratelli tuoi. Mettetevi d’accordo in buona armonia…”

     Giuseppe Simonetti all’improvviso lo interruppe, dicendogli: “Senti, tu la stai prendendo troppo alla larga!”. Poi si rivolse a suo fratello Domenico e gli disse: “Parliamo piuttosto dei fatti nostri. Dimmi come è stata fatta la nostra divisone!”. Domenico, anche per il tono di voce del fratello, se la prese subito a male, improvvisamente si avvicinò al camino, infilò la mano in una buca e tirò fuori un coltello, uno scannatoio, con il quale vibrò un forte colpo al nipote Giovanni, ferendolo all’addome. Poi si lanciò, sempre con l’arma in pugno, contro i due fratelli, ferendo alla coscia sinistra Giuseppe. Scapparono tutti, i due feriti assai a fatica, lasciando i loro cappelli. Maria Angelozzi chiuse la porta e non volle aprirla, quando gli altri tornarono a bussare, dicendo di volerli riprendere. Minacciarono anche di abbattere la porta, ma la donna non volle aprire e lo fece solo quando arrivarono i carabinieri. Dichiarò poi di non esseri accorta delle coltellate.

     Giovanni Simonetti, in seguito ad una imponente emorragia cui era seguita una peritonite, morì la notte del 1° aprile, dopo aver detto a sua moglie Maria Melchiorre e a sua madre, Antonietta Lo Ricco, che, se non fosse stato per lui che lo aveva disarmato, suo zio avrebbe scannato tutti quanti. Giuseppe, ferito solo leggermente, se la cavò.

     Domenico Simonetti andò a costituirsi ai carabinieri, nella caserma di Castelli, alle 21,30 di quella stessa sera, mostrando una ferita da arma da taglio alla regione scapolare sinistra e un’escoriazione allo zigomo, che il giorno successivo furono certificate dal medico condotto dott. Eugenio Fuschi. Al maresciallo Livio Dazzi, comandante della stazione, e al carabiniere Luigi Carrozza, dichiarò che Giuseppe e Giovanni dovevano essersi feriti reciprocamente, mentre si colluttavano con lui, che aveva afferrato un coltello per difendersi dalla loro aggressione, senza però riuscire a colpire nessuno dei due. Disse di voler sporgere querela contro i fratelli.

     Il maresciallo Silvio Dazi uscì per assumere informazioni e, coadiuvato dai carabinieri Gabriele Marino e Giustino Di Crescenzo, si portò a Befaro, dove furono raccolte le dichiarazioni di Achille Orsetti e Giuseppe Simonetti, i quali diedero una diversa versione dell’accaduto, accusando Domenico di omicidio e di tentato omicidio. Il coltello era a lama fissa, lunga 31 centimetri e manico lungo 12 centimetri, acuminata, e la lama era spessa 9 millimetri.        

     Alle 15,30 del 1° aprile il pretore di Tossicia, Giuseppe Nardini, si recò a Befaro e in sua presenza si procedette alla ricognizione cadaverica sul corpo dell’ucciso Giovanni Simometti, poi effettuò un sopralluogo nella casa in cui era avvenuta l’omicidio. Nell’unica stanza che costituiva l’abitazione, adibita sia  a cucina che a camera da letto, alla sinistra di chi entrava, si trovava il camino, nei cui pressi, sul pavimento, si notavano evidenti tracce di sangue, in maggiore quantità sul pianerottolo situato davanti alla porta dell’abitazione.  L’autopsia sul cadavere di Giovanni Simonetti fu effettuata dal dott. Eugenio Fuschi, medico chirurgo di Castelli, e Giovanni Palumbi, medico chirurgo di Tossicia.

     L’omicidio fece una grande impressione. Quando ne fu informato, il notaio Celli esclamò: “Povero Giovanni! Gliel’hanno fatta la pelle!”. Carmine Fieni, di Isola del Gran Sasso, riferì ai carabinieri che un giorno aveva accompagnato Domenico Simonetti nello studio dell’avv. Ugo Martelli, a Tossicia, e aveva saputo che i Simonetti si facevano tra loro continui dispetti. Alessandro De Prophetis, di Befaro, riferì che tre o quattro mesi prima dell’omicidio Giovanni Simonetti, che nutriva rancore contro lo zio Domenico, lo aveva aggredito e aveva avuto con lui una colluttazione.  Francesco Marrone, anche lui di Isola del Gran Sasso, riferì che un giorno aveva esortato Giovanni Simonetti a fare pace con lo zio, ricevendo questa risposta: “Ma che pace! Le nostre cose andranno a finire male!”

     Il 2 aprile 1922 alle 17,15 del pomeriggio, nel carcere mandamentale di Tossicia, il pretore Giuseppe Nardini interrogò l’imputato, che nei giorni seguenti fu sentito anche dal giudice istruttore Antonio Vigorita, nel carcere giudiziario di Teramo.  Domenico Simonetti, fu Roccantonio e fu D’Angelo Annantonia, nato a Castelli il 2 marzo 1870, sposato con Mariangela Angelozzi, senza figli, dopo aver nominato quale difensore di fiducia l’avv. Antonio De Benedictis,  dichiarò che i fratelli e soprattutto suo nipote Giovanni lo avevano minacciato nel chiedergli conto della divisione che c’era stata l’anno prima e Giovanni gli si era avvicinato mostrando di volerlo afferrare. Allora lui, per difendersi, aveva preso il coltello che aveva in un buco del camino, che si era fatto costruire da un fabbro di Castelli per ammazzare i maiali, e se ne era servito per difendersi dall’aggressione. I fratelli, mentre lo colpivano con pugni alla testa, gli dicevano: “Ti dobbiamo ammazzare!”. Il fratello e suo figlio si erano feriti a vicenda, perché lui non aveva colpito nessuno e si era dato alla fuga una volta che era riuscito a liberarsi. Orsetti non poteva aver visto niente, perché era fuggito ancor prima che ci fosse la colluttazione finale.

     Nel pomeriggio del 24 maggio 1922, il giudice Vigorita interrogò nuovamente nel carcere di Teramo l’imputato, il quale confermò che il primo ad afferrarlo minacciosamente era stato suo nipote Giovanni, la cui morte aveva appreso solo in un secondo momento, meravigliandosene, perché lui non lo aveva colpito. Non sapeva spiegarsi quello che era accaduto. Sua moglie gli aveva detto che suo fratello, aggredendolo, impugnava una sbarra e che lui lo aveva fatto cadere mentre tentava di liberarsi. Era andato dai carabinieri a denunciare l’aggressione subita, temendo che sua moglie, che aveva lasciata sola a casa, potesse essere aggredita nuovamente. Spiegò poi le ragioni dei contrasti tra fratelli per quella contestata divisione delle proprietà della famiglia, di cui fece una dettagliata cronistoria, e della serie di minacce che aveva subito. I fratelli gli avevano detto che lo avrebbero affogato nel lago. Il 19 gennaio erano andati a casa sua e avevano detto a sua moglie, in sua assenza: “Dì a tuo marito che gli è venuta noia di campare!”

     Il 22 giugno 1922 Domenico Simonetti fu nuovamente interrogato nel carcere di Teramo dal giudice istruttore Vigorita. Alle contestazioni di reato, rispose confermando la sua versione dei fatti e dicendosi innocente. Il 29 luglio 1922 il P.M. Giovanni Mancini trasmise gli atti al Procuratore Generale del Re per l’ulteriore corso di giustizia e la Sezione di Accusa della Corte di Appello de L’Aquila il 6 settembre 1922 rinviò l’accusato al giudizio della Corte d’Assise di Teramo. Passò molto tempo prima dell’inizio del processo, in vista del quale, l’11 giugno 1924, l’imputato nominò suo difensore l’avv. Attilio Re del foro di Giulianova, mentre Maria Melchiorre, vedova dell’ucciso Giovanni Simonetti, si costituì parte civile, anche in nome e per conto dei figli minorenni Giuseppe e Raffaele, nominando come suo rappresentante legale l’avv. Arturo Massignani del foro di Teramo.

     La prima udienza iniziò nell’aula della Corte d’Assise di Teramo, presieduta da Federico Di Niscia, alle ore 9 del 22 luglio 1924. La pubblica accusa era rappresentata da Vincenzo Colavecchi, i difensori dell’imputato, accusato di omicidio e mancato omicidio, erano gli avvocati Antonio De Benedictis e Attilio Re, accanto ai quali era seduto l’avv. Ugo Martelli, che avrebbe assunto la difesa nel caso di impedimento di uno dei due.  La parte civile era rappresentata dall’avv. Arturo Massignani. Dopo la costituzione della giuria, la difesa presentò subito un’eccezione: quasi tutti i testimoni erano congiunti dell’imputato e pertanto non potevano deporre. Il presidente la respinse, osservando che, trattandosi di un piccolo paese, era naturale che fossero quasi tutti congiunti tra loro. Soltanto il dibattimento avrebbe potuto stabilire se la deposizione di ciascuno di loro fosse strettamente indispensabile e necessaria.

      L’udienza, sospesa a mezzogiorno, proseguì alle 16 del pomeriggio, con la deposizione dell’imputato, il quale tornò a dichiararsi innocente. Poi cominciò la sfilata dei testi. Le dichiarazioni più importanti furono quelle del 53enne Achille Orsetti, il quale nel frattempo aveva lasciato Befaro e si era trasferito a lavorare a Monterotondo di Roma. Riferì che, quando erano arrivati a casa di Domenico Simonetti, tutti si erano seduti, meno Giovanni, che era il più giovane, per la mancanza di altre sedie. La moglie di Domenico aveva offerto al nipote di suo marito la sua, ma Giovanni aveva preferito restare in piedi.

     “Io cominciai a dire” continuò Orsetti “che troppi commenti sfavorevoli c’erano stati sui Simonetti, che anche io ero tornato dall’America e avevo questionato con i miei fratelli per l’eredità e che si poteva aggiustare tutto, come avevo fatto io, che ero un vecchio amico di Domenico, con il quale avevo progettato di tornare in America.” A quel punto, proseguì Orsetti, era intervenuto Francesco, invitandolo a non farla troppo lunga. “Ti ricordi di aver accettato la divisione in presenza di testimoni?” aveva poi aggiunto. “Questo non è un tribunale” aveva risposto Domenico. “Che volete voi da me questa sera?”. Aveva poi afferrato il coltello, che aveva tratto fuori da una buca del camino, e aveva preso a dare colpi all’impazzata. Poi era uscito dalla sua abitazione e si era messo a scappare, sempre con il coltello in mano. Erano usciti anche loro, inseguendolo, ma senza poterlo raggiungere, poi erano tornati indietro, a riprendere i loro cappelli.  Ma Maria Angelozzi, la moglie di Domenico, non aveva voluto aprire loro la porta. Giovanni, ferito, era stato accompagnato a casa, era stato chiamato il medico, ma non erano stati chiamati i carabinieri, ai quali era stato Domenico a dire di aver ferito il nipote.

     Risultò molto importante la deposizione di Maria Melchiorre, vedova dell’ucciso, la quale precisò che periodicamente Orsetti si recava a casa sua a darle notizie di una sua sorella che si trovava emigrata in America. Lo aveva fatto anche quella sera e aveva preso a meravigliarsi per il fatto che essi non avessero ancora fatto pace con Domenico. Si era proposto come intermediario e aveva proposto di andare tutti insieme da lui, per tentare una conciliazione, per ragionare e fare pace. Erano andati, ma dopo mezz’ora, suo marito era tornato a casa ferito, sostenuto a braccia dal padre e dallo zio Francesco. Vedendolo ferito alle mani, gli aveva chiesto che cosa fosse successo e suo marito aveva risposto: “Questo non  è niente. Ho preso una coltellata al fianco da zio Domenico”. Era stato messo a letto e, parlando a stento, aveva detto: “Io sono morto, ma se non fossi riuscito a disarmare mio zio sarebbero morti anche zio Francesco e mio padre”. Poco dopo non era stato più in grado di parlare e alle 4 di notte del 1° aprile era spirato.

     Vincenzo Simonetti dichiarò che aveva visto suo fratello Giovanni tornare a casa ferito. Gli aveva detto: “Zio Domenico mi ha ucciso”. Lui aveva cercato di rincuorarlo, dicendogli, “Coraggio, come puoi dire che sei ucciso per queste ferite?”. Ma Giovanni aveva replicato: “Questo non è niente. Ho il ventre spaccato”.

Maria Angelozzi, moglie dell’imputato, dichiarò che suo marito era stato aggredito e si era difeso. Lei non aveva visto nessuna coltellata. Non si scostò da questa versione, nonostante i tentativi della parte civile di farle dichiarare cose diverse. Furono chiamati a deporre anche gli altri famigliari dell’imputato e della vittima: Antonietta Lo Ricco Antonietta, madre dell’ucciso Giovanni, Maria Domenica Simonetti, maritata con Vincenzo Magazzeni, abitante a San Pietro di Isola, sorella dell’imputato,  Raffaele Melchiorre e Rosa Di Paolo, suoceri dell’ucciso, Giuseppina Melchiorre, di Raffaele, maritata Simonetti, di anni 20, cognata dell’ucciso e nuora di Giuseppe Simonetti. Deposero anche i carabinieri Marino Gabriele, 22enne, nativo di Spoltore, e Giustino Di Crescenzo, anche lui 22enne, nativo di Guardiagrele, il maresciallo Livio Dazzi, che nel frattempo era stato trasferito a Bologna, e Giuseppe Pardi, falegname di Castelli.

      La seconda e la terza udienza si svolsero il 23 e il 24 luglio 1924. Il P.M. chiese la condanna dell’imputato a 10 anni, 4 mesi e 13 giorni 13 di reclusione, di cui 6 mesi condonati per l’amnistia prevista dai decreti del 31 dicembre 1922 e del 9 aprile 1923. La parte civile chiese la condanna e il risarcimento danni. Furono poi poste le questioni ai giurati, che affermarono la piena responsabilità di Domenico Simonetti, il quale fu condannato alla pena di anni 10, mesi 4 e giorni 13 di reclusione, per omicidio preterintenzionale e lezioni con arma da taglio, a un anno di vigilanza speciale e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e al risarcimento della parte lesa. Gli furono condonati sei mesi.

     Contro la sentenza fu presentato ricorso in Cassazione il 25 luglio 1924, ma il successivo 6 marzo il ricorso fu ritirato, così la sentenza risultò confermata. Il 21 novembre 1925 Domenico Simonetti si vide riconoscere altri due anni di condono e cominciò a sperare di poter uscire dal carcere abbastanza presto.

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