L'omicidio di Befaro

prima parte

 

Domenico Simonetti arrivò in America il 18 ottobre 1899, sbarcando a New York dalla nave “Vittoria”, partita da Napoli quasi un mese prima. Aveva ventidue anni e aveva lasciato nella sua casa paterna, a Befaro di Castelli, la giovane moglie, Maria Angelozzi, con una figlia in tenerissima età. Nei primi tempi si sistemò a Philadelphia nella casa del fratellastro Pietro, che gli aveva fatto la richiesta per farlo partire, ma poi trovò una sistemazione autonoma. Il primo anno scrisse regolarmente alla famiglia, ma poi, dopo aver ricevuto alcune lettere nelle quali gli venivano riferite alcune voci sull’infedeltà della moglie, non inviò più lettere e stette sette anni senza dare più notizia di sé. I fratelli si rivolsero anche al consolato, ma inutilmente, per sapere se fosse vivo o morto.

     Un giorno arrivò a Befaro una sua lettera alla moglie, con dentro del denaro. Nei mesi successivi, con una certa periodicità, Domenico continuò ad inviare a Maria del denaro, dicendole di consegnarlo a suo fratello Giuseppe, per i bisogni della famiglia, alquanto numerosa. Morto il capofamiglia, Roccantonio, era rimasta sua moglie, Annantonia D’Angelo, costretta a letto da una malattia. Badavano a lei i due figli maschi rimasti a Befaro, Francesco, il maggiore di età, e Giuseppe, più giovane di otto anni. L’unica figlia femmina, ancora più giovane, si era sposata con Vincenzo Magazzeni ed era andata a vivere con il marito a San Pietro di Isola del Gran Sasso. Con il denaro inviato dall’America da Domenico, Francesco poté curare sua madre fino a quando la poveretta non morì, e provvedere a sé, a sua moglie e ai suoi due figli, Giovanni e Vincenzo, a suo fratello Giuseppe, che era sposato anche lui, senza figli. I Simonetti con 2000 lire comprarono anche da Maria Antenucci un pezzo di terra, con il quale accrebbero la proprietà famigliare. La moglie di Domenico continuò a restare in famiglia, anche dopo che morì sua figlia, ad appena undici anni di età.

     Nemmeno dopo la morte della figlia, Domenico Simonetti tornò in Italia, anzi scrisse al fratello Francesco invitandolo a far partire per l’America anche il figlio Giovanni. Così ad appena 17 anni di età Giovanni si imbarcò a Napoli sul vapore “Ancona” e arrivò in America il 29 aprile 1913. Suo zio Domenico lo accolse a casa sua, a Philadelphia e lo aiutò a trovare un’occupazione. Il giovane si accorse però quasi subito che lo zio conduceva una vita piuttosto movimentata e non priva di pericoli. Qualcuno gli disse che faceva parte della “Mano Nera”, un’organizzazione criminale che aveva come parola d’ordine “Maledizione”. Si teneva in casa, come mantenuta, una donna, emigrata anche lei, proveniente dalla provincia de L’Aquila, con la quale aveva una relazione turbolenta.

     Un giorno, nel 1917, Domenico venne a sapere che l’aquilana aveva contemporaneamente un’altra relazione con un emigrato italiano originario della provincia di Caserta e, in presenza del nipote Giovanni, le fece una scenata, arrivando anche a prenderla a schiaffi e dicendo che doveva andarsene da casa sua. Ma lei non lo fece e volle restare, negando la relazione. Scrisse però una lettera al casertano, in cui lo pregava di non farsi più vedere, e, con l’intenzione di spedirla di nascosto da Domenico, la nascose nel cassetto di un comò. Giovanni casualmente la trovò e la lesse. Il casertano aveva il suo stesso nome e, quando vide che la lettera cominciava con le parole “Caro Giovanni”, cui seguiva un esplicito invito a non farsi più vedere, pensò che la lettera fosse diretta a lui. Decise di chiedere conto a suo zio Domenico del perché dovesse lasciare la sua casa e gli mostrò la lettera. Suo zio capì che era diretta non a suo nipote, ma al casertano e invitò quest’ultimo a casa sua per un chiarimento.

      Il casertano si presentò armato di revolver e nel corso della discussione che ebbe con Domenico Simonetti, alla presenza di Giovanni, lo estrasse dalla tasca e lo puntò contro il rivale. La prontezza di Giovanni, che gli si slanciò contro, salvò la vita allo zio, perché, trattenendo il braccio armato del casertano, deviò i tre colpi esplosi contro Domenico. Questi, estratto di tasca un coltello, si avventò contro il rivale e gli vibrò tre tremendi colpi alla pancia. Il casertano si portò le mani al ventre, si piegò sulle ginocchia e poi scivolò a terra, mentre Domenico e suo nipote si precipitavano fuori dell’uscio. Avevano percorso, fuggendo, non più di una cinquantina di metri, quando sentirono gridare la donna aquilana e pensarono che il casertano, benché ferito, si fosse rialzato e la stesse per ammazzare. Così Domenico tornò indietro, preso dall’impulso di volerla salvare. Giovanni dapprima rimase perplesso, poi decise di tornare indietro anche lui. Erano arrivati davanti all’uscio della loro casa, quando arrivarono gli agenti di polizia, che li arrestarono entrambi.

      Domenico Simonetti restò in carcere per quattro mesi; suo nipote Giovanni per tre mesi e venti giorni. Nel giudizio che seguì Domenico fu riconosciuto colpevole di ferimento (per fortuna il casertano non era morto), mentre suo nipote Giovanni fu prosciolto. Entrambi però furono condannati a pagare una multa di 400 dollari ciascuno. Dopo un anno decisero di tornare tutti  due in Italia, dove arrivarono il 1° novembre 1919. Entrambi vissero nei primi mesi nella stessa casa di tutti gli altri Simonetti, che diventò assai stretta per tutti, anche perché Giovanni decise di sposare una giovane che si chiamava Maria Melchiorre. Fu per lui un gran giorno quello in cui, era il 1920, insieme con suo padre Francesco, suo zio Giuseppe, il suo futuro suocero, Giovanni Melchiorre e altri parenti, si recarono ad Isola del Gran Sasso, per fare nel negozio dell’orefice Guerino Martelli, la “spesa del matrimonio”. I due sposi restarono nella casa paterna, ma, quando Vincenzo, il fratello minore di Giovanni, decise di sposarsi anche lui, essa divenne così stretta per tutti che Domenico decise di andare a vivere da solo, per conto suo, insieme con sua moglie Maria. Si sistemò in una stanza che si trovava sopra un mulino di famiglia, distante circa duecento metri dalla casa paterna, e accanto ad un laghetto che serviva per le funzioni del mulino. Era una sola stanza, ma abbastanza ampia da poter essere adibita sia a cucina, tanto più che c’era un grosso camino, sia a camera da letto. La decisione di Domenico di andare a vivere da solo, staccandosi dai fratelli, fu determinata anche da qualche screzio che era cominciato a sorgere riguardo all’eredità paterna, che era ancora indivisa. Fu tentata la via di una divisione bonaria, per evitare le spese di una divisione giudiziaria, di cui c’era però un rischio effettivo, perché i pareri dei tre fratelli circa i criteri da seguire non erano certamente concordi. Fu Francesco che, essendo maggiormente esperto di campagna, si occupò di pensare ad una soluzione e in particolare di fare le parti.

     Nel componimento che fu concordato si stabilì che la parte maggiore fosse assegnata a Giuseppe, sia perché non aveva figli, sia perché si sarebbe occupato lui di dare all’unica loro sorella la legittima. Domenico si scelse una delle altre due parti e Francesco prese la terza. Testimoni al componimento furono Raffaele Melchiorre e Vincenzo La Valle. Dapprima l’accordo sembrò aver soddisfatto tutti, ma non passò molto tempo che fra i tre fratelli tornarono gli screzi e subentrò un clima di avversione che ben presto si trasformò in odio. Soprattutto da parte di Domenico, il quale si convinse di essere stato sacrificato e danneggiato nella divisione e cominciò a pretendere che venisse rifatta, e stavolta, non bonaria, ma giudiziale. I suoi due fratelli, pur essendo disposti a fare una nuova divisione, si opponevano ad una divisione giudiziale, per evitare inutili spese, ma Domenico non voleva sentire ragioni e nell’ottobre de 1921 le sue richieste si fecero ancora più pressanti. Nacquero poi altri motivi di discordia. 

     Domenico Simonetti mostrò sempre più spesso di non essere contento della divisione bonaria della proprietà famigliari, ritenendo di essere stato sacrificato e danneggiato. Cominciò a pretendere dai fratelli una divisione giudiziale.  Fu nell’ottobre del 1921 che le sue richieste di rivedere l’accordo si fece più pressante. Sorsero però altri motivi di discordia.

     Durante il periodo della sua permanenza in America, Domenico aveva mandato a sua moglie complessivamente 8000 lire, somma che la donna, proprio su suggerimento del marito, aveva consegnato al cognato Giuseppe, e della quale Domenico pretese e ottenne la restituzione. La cosa determinò un certo risentimento in Giuseppe. Quando Domenico gli chiese di restituirgli anche le 1600 lire che gli aveva prestato per l’acquisto di una casa dopo il suo ritorno dall’America, rispose che non voleva ridargliele. A quel punto Domenico tirò fuori i suoi conti e disse che gli aveva mandato dall’America altre 1900 lire, chiedendo la restituzione di una somma complessiva di 5400 lire. La tensione tra i tre fratelli raggiunse il massimo quando  Domenico chiese ad un compaesano, Raffaele Melchiorre, di fare da intermediario, di andare da Giuseppe e di dargli questa risposta: “Le 1000 lire se le può tenere, come regalo per il figlio Vincenzo, ma 4400 lire le rivoglio”. Giuseppe disse a Raffaele Melchiorre: “Digli che ho restituito tutto quello che dovevo restituire e non devo restituire più nulla!”

     Nella discussione tra fratelli si intromise anche Giovanni, il figlio di Francesco, il quale aveva preso in odio lo zio Domenico, presso il quale inviò un altro compaesano, Giuseppe Pardi, chiedendogli di ricordargli  che gli aveva salvato la vita in America e che per sua colpa aveva dovuto pagare, pur innocente, una multa di 400 dollari, di cui chiedeva la restituzione. “Dì a mio zio” aggiunse Giovanni, “che, giacché ha preteso da mio padre la restituzione del denaro mandato dall’America, anche io pretendo la restituzione degli 800 dollari che ho speso per lui in America, oltre ad un risarcimento per i quasi quattro anni di carcere che ho trascorso per colpa sua”. “Dì a mio nipote che non devo ridargli nulla!” rispose Domenico a Pardi. “Digli che i debiti fatti in America non si pagano in Italia”.

     Nell’ottobre del 1921 Domenico insistette con i fratelli nel pretendere una divisione giudiziaria dell’eredità paterna e mantenne ferma questa sua richiesta, nonostante i numerosi tentativi di alcuni amici (Giuseppe Pardi, Raffaele Melchiorre, Achille Orsetti, Domenico De Prophetis), che cercarono di porsi come intermediari e pacificatori. Un’ulteriore complicazione ci fu quando Domenico decise di acquistare dalla sorella Maria Domenica, che aveva 44 anni e abitava a San Pietro di Isola del Gran Sasso, la parte toccata a lei come legittima, sebbene la donna l’avesse già ceduta in precedenza al fratello Giuseppe, ricevendone il denaro corrispettivo. Dell’avvenuta compera dalla sorella, per 600 lire, i fratelli furono infornati da Maria Domenica Iezzi e da Elisabetta Lo Ricco di Palombara. Chiesero e ottennero la conferma da Domenico, il quale rispose: “Quella è sorella tanto a me quanto a voi, perciò può vendere sia a me che a voi”.

     Delle liti tra i fratelli Simonetti, ormai parlava e sparlava tutto il paese. Ciò che urtava soprattutto Domenico era che suo nipote Giovanni andava in giro per Befaro dicendo che lo zio avrebbe dovuto mostrarsi meno adirato, anche per riconoscenza, perché, quando stavano entrambi in America, lui gli aveva salvato la vita. Furono non pochi gli episodi che confermarono quanto l’odio tra i Simonetti crescesse ogni giorno di più. Un giorno del mese di dicembre 1921, Domenico Simonetti, accompagnato da Vincenzo La Valle, si recò in casa del fratello Domenico Simonetti, per chiedergli  la restituzione della chiave del mulino e per dargli la parte del bestiame che gli spettava. Domenico gli riconsegnò la chiave, ottennne la restituzione di 4000 che avanzava, ma la questione del bestiame venne trascurata.

     Un altro giorno Giovanni Simonetti si recò a casa di Pietro Serrani, proprietario di Penna Sant’Andrea, a caricare del vino e si mise a discorrere con lui della discordia che aveva con lo zio Domenico.  Giovanni pregò Serrani di cercare di mettere una buona parola con lo zio e persuaderlo a rispettare la divisione bonaria che era stata già fatta. Un altro giorno, Eleonora Di Eusanio si trovò presente quando Domenico Simonetti, parlando con Pasquale Sacchetti sulla strada dei Turri, gli disse: “Uno di questi giorni ne faccio uno di famiglia e così la famiglia Simonetti perderà il buon nome.”

      Un altro giorno ancora, Francesco e Giuseppe Simonetti, oltre a Giovanni, si trovarono ad Isola del Gran Sasso, nel negozio dell’orefice Guerino Martelli, al quale riferirono di essersi recati dal notaio Celli per parlare della divisione dei loro beni ereditari. Era ancora tutti eccitati e dissero che al notaio, che li invitava alla moderazione, parlando di Domenico: “Le cose nostre andranno a finire male! Chi morto e chi in galera!”

      Un altro giorno di febbraio, Maria Angelozzi si trovava vicino a casa sua a togliere alcuni pali i legno, quando vide i fratelli di suo marito Domenico, Francesco e Giuseppe, in compagnia dei figli di Giuseppe, Vincenzo e Giovanni. Quest’ultimo disse alla domma: “Dì a tuo marito che si è stufato di campare”. Qualche giorno dopo, nella rivendita di generi di privativa di Colledoro, Domenico, presenti Raffaele Melchiorre e il parroco don Davide Pardi, disse che voleva “strippare” la sua famiglia paterna.

      Il 3 marzo, Giuseppe Simometti nei pressi del ruscello Roviniere, incaricò Giacinto Angelozzi, figlio del fratello di Maria Angelozzi, moglie di Domenico, di dire a Domenico che si rimettesse alla divisione già fatta, altrimenti ci avrebbe pensato il lago del mulino. Giacinto riferì a Domenico la cosa e gli consigliò di cambiare abitazione: “La tua casa è troppo a portata di mano dei tuoi fratelli” gli disse “e da un momento all’altro ti possono fare qualche brutta sorpresa”.  “Non posso lasciare casa e affittarne un’altra” rispose Domenico. In seguito Giacinto vide che Domenico si rivolgeva al nipote Giovanni in maniera garbata e amichevole, ma riceveva un cambio risposte molto sgarbate.

     Il 21 marzo 1922, Maria Angelozzi, moglie di Domenico Simonetti, in casa di Vincenzo Cesarini, di anni 44, di Castelli, ebbe a lamentarsi dei soprusi fatti a suo marito dai fratelli. Raccontò che Giovanni, il nipote, proprio il giorno prima gli era passato davanti con i buoi e con l’aratro e gli aveva detto di non oltrepassare il limite da lui segnato. Al che Domenico, per sfuggire l’occasione, si era allontanato. Qualche giorno dopo, Giuseppe passando davanti a Domenico con una giumenta, gli intimò di non zappare in quel pezzo di terra, perché apparteneva a lui. Maria, sempre per sfuggire l’occasione tolse la zappa dalla mano del marito e lo invitò a tornare a casa.

La mattina del 30 marzo 1922, Francesco Simonetti si recò a casa di Antonio Di Gabriele, di Befaro, e si incontrò con Achille Orsetti. Questi ebbe a dire che doveva recarsi nella casa dei Simonetti, per consegnare una lettera arrivata dall’America, a Maria Melchiorre, moglie di Giovanni Simonetti. Parlarono delle discordie tra i fratelli Simonetti e Orsetti disse: “Voglio venire anche io da Domenico per mettere una buona parola”. In effetti, era andato anche lui a casa di Domenico Simonetti, insieme con i suoi fratelli Francesco e Giuseppe e suo nipote Giovanni. Era convinto che la sua opera di pacificatore potesse dare buoni risultati. Ma purtroppo non fu così…       

continua