L'omicidio di Fosso Casale

prima parte

          Erano le cinque e mezza della mattina di venerdì 28 ottobre 1898 quando Cecilia D’Antonio, accompagnata da Domenica Liborio, bussò alla porta della caserma dei carabinieri di Notaresco. Aprì il carabiniere Gaetano Perfetti, al quale la giovane disse di dover denunciare la morte dello zio.

            - Come si chiama questo zio? - chiese il carabiniere. - E dove si trova?

            - Si chiama Francesco Di Tecco e sta a Fosso Casale di Montepagano.

            - E perché vuoi denunciare la sua morte? - chiese il carabiniere.

            - Perché è stato trovato morto, steso a terra, nudo e in una pozza di sangue. Sicuramente è stato ammazzato - rispose la donna.

            - E chi lo ha ammazzato?

            - E io che ne so? Chi lo ha ammazzato lo dovete trovare voi.

            Il carabiniere Perfetti andò a svegliare il comandante della stazione, il brigadiere Clemente Negro, il quale, a sua volta, fece svegliare gli altri due carabinieri, Camillo Schiazza e Amedeo Giorgi. Cominciò così la verbalizzazione della denuncia delle due donne, le cui generalità furono riportate sulle pagine del verbale: D’Antonio Cecilia, di Biase, di anni 19, nata a Morro d’oro e dimorante a Fosso Canale, nel tenimento di Montepagano, e Liborio Domenica, fu Bernardo, di anni 27, nata a Notaresco e residente a Montepagano.

            Mentre la sua accompagnatrice restò muta per quasi tutto il tempo, dicendo subito che non sapeva niente e che aveva solo accompagnato l’amica a Notaresco, Cecilia D’Antonio fornì al brigadiere Negro indicazioni sufficienti perché i carabinieri Schiazza e Giorgi, partiti subito dopo alla volta di Morro d’Oro, potessero riuscire a trovare il luogo dove era stato trovato il morto.  Dopo di che diede al brigadiere altre informazioni sull’accaduto.

            - Io abito nella casa di mia zia – disse – che si chiama Agata Ciarrocco, e di suo marito, Francesco Di Tecco. Ieri sera, verso le 18, mi sono allontanata momentaneamente dall’abitazione, trattenendomi a discorrere con alcune donne del vicinato. Mia zia non c’era, perché era andata a dormire, come a volte faceva, in casa di un suo figliastro, che abita a Rosburgo. Questa mattina, secondo gli accordi, suo marito doveva andarla a riprendere, per andare insieme alla fiera.

            - E invece alla fiera non ci è andato – osservò il brigadiere, rendendosi subito conto che l’osservazione poteva risultare spiacevole alla nipote dell’uomo morto ammazzato.

            Ma si accorse che su Cecilia quell’infelice uscita non aveva avuto alcun effetto. La giovane proseguì come se niente fosse il suo racconto. Aveva approfittato dell’assenza di sua zia Agata per trattenersi a discorrere con le vicine più a lungo del solito. Era tornata a casa verso le 21 e, arrivata davanti all’uscio, con sua grande sorpresa aveva trovato suo zio, steso a terra, morto, in una pozza di sangue.

            - E che hai fatto? – chiese il brigadiere.

            - Sono subito corsa a Rosburgo, per avvisare mia zia.

            - Ma non hai cercato di soccorrere tuo zio?

            - Ho capito subito che era morto e non c’era nulla da fare.

            - Hai avvertito qualcuno del paese, prima di partire per avvertire tua zia? Qualche vicino di casa, intendo dire…

            - No.

            Il brigadiere pensò che era piuttosto strano che la donna, visto suo zio steso a terra, morto, non avesse gridato, non avesse avvertito qualcuna delle vicine con cui stava discorrendo fino a qualche minuto prima di tornare a casa e di fare quella tragica scoperta. Ma Cecilia proseguì il suo racconto, dicendo:

            - Arrivata a Rosburgo e avvisata mia zia, siamo subito ripartite insieme, per tornare a casa il prima possibile. Ma abbiamo fatto una deviazione, per andare ad avvisare dell’accaduto un altro nipote di mio zio, che abita a Montepagano.

            - Come si chiama?

            - Si chiana Domenico Talamonti. Abita a Montepagano, ma è nativo di Tortoreto.

            - Come mai avete deciso di arrivare il prima possibile a casa vostra, dove tuo zio giaceva ancora in mezzo strada, morto, e poi avete deviato verso Montepagano?

            - Beh, ma come facevamo? Dovevamo avvertire Domenico, anche perché lui a sua volta doveva correre ad avvertire altri parenti del morto, che abitano pure nei dintorni di Monteoagano. E infatti, mentre noi siamo ripartite per correre a casa nostra, lui è andato ad avvertire gli altri parenti.

            Dopo aver verbalizzato la denuncia di Cecilia D’Antonio, anche il brigadiere Negro e il carabiniere Perfetti partirono, accompagnate dalle due donne, alla volta di Fosso Casale di Montepagano, dove arrivarono verso le sette e mezza. I carabinieri che li avevamo preceduti avevano già effettuato alcuni rilievi e interrogato alcuni vicini. Il morto si trovava ancora in mezzo alla strada, a pochi metri dalla porta di casa sua, immerso in una pozza di sangue parzialmente disseccato. Sotto la sua gola sporgeva un grosso coltella da tavola.

            Due ore dopo, alle 9,30, il vice pretore reggente il mandamento di Notaresco Luigi Montefusco inviò un telegramma al Giudice Istruttore Mastrocinque, dandogli notizia dell’omicidio e dicendo che si ignorava l’autore del delitto. Intanto il brigadiere Negro aveva intensificato le sue indagini, coadiuvato dai carabinieri Schiazza e Giorgi, e stava procedendo ad una serie di interrogatori, sentendo molti vicini di casa del morto, alla ricerca di un movente del delitto e di possibili sospetti. Quello che seppe dalla gente lo indusse a fare una serie di domande piuttosto stringenti a Cecilia D’Antonio, le cui dichiarazioni e il cui comportamento non lo convincevano del tutto. Tutto ciò che la donna aveva fatto, dalla scoperta di suo zio morto fino a quel momento, il suo contegno, alcune sue frasi davano l’impressione che lei sapesse di quella tragica morte molto più di ciò che diceva di sapere. Cadde anche più volte in contraddizione parlando dei suoi rapporti con lo zio, di cui la gente in paese diceva che a volte le riservasse delle attenzioni “particolari”. Anche il contegno della moglie del morto e zia di Cecilia risultava alquanto strano. Quando il vice pretore Montefusco, accorso anche lui sul luogo del delitto, interrogò la donna e la nipote, ebbe la stessa impressione: le due donne non dicevano la verità. Fu così che in una nota dei carabinieri indirizzata al Giudice Istruttore venne indicato quale sospetta dell’omicidio di Francesco Di Tecco la nipote di sua moglie, Cecilia D’Antonio.

            Erano le 13 quando, su incarico del vice pretore, il dottor Carlo Romualdi, di Pasquale, di anni 34, e il dottor Domenico Olivieri, di Nicola, di anni 31, procedettero ad una prima visita necroscopica sul cadavere di Francesco Di Tecco. Sulla regione mediana del collo vi era un’ampia piaga beante, della larghezza di circa sette centimetri, decorrente in senso trasversale. La cute era recisa e mostrava due bordi affilatissimi, segno che l’arma adoperata era molto tagliente, come un rasoio o simile. La lesione della cute doveva essere avvenuta da sinistra verso destra, perché sull’angolo destro dell’ampia piaga esisteva ciò che si chiamava una coda, cioè lo striscio che fa il tagliente nel riuscire dai tessuti. Oltre la cute, a sinistra, erano lese molte fibre della gamba clavicolare del muscolo sterno-cleido-mastoideo e, per intero, l’origine della gamba sternale dello stesso.  La lama omicida aveva aperto per circa la metà della sua periferia la carotide esterna di sinistra, a pochi millimetri in basso dal punto di origine dell’arteria tiroidea; aveva pure aperta ampiamente la trachea, dividendo la cartilagine del primo anello, nuova prova che la lama era affilatissima e aveva inciso per ultimo poche fibre del muscolo sterno-cleido-mastoideo di destra. Ogni ulteriore accertamento era affidato all’esame autoptico, che sarebbe stato effettuato nel cimitero di Montepagano, dove il cadavere fu trasportato su decisione del giudice istruttore.

Alle 15,30 del 28 ottobre 1898 a Fosso Casale di Montepagano il vice Pretore di Notaresco Luigi Montefusco sottopose a stringente interrogatorio Cecilia D’Antonio, sospettata ormai apertamente per l’omicidio dello zio Francesco Di Tecco. La giovane, figlia di Biagio e di Angela Panico, aveva 18 anni e qualche precedente penale. Era stata processata per furto semplice dal Pretore di Notaresco, che il 20 dicembre 1894 l’aveva però assolta per insufficienza di prove. Sempre per insufficienza di prove, nel maggio del 1898 era stata assolta dall’accusa di furto qualificato dal Tribunale di Teramo, per non provata reità.

      L’interrogatorio fu assai teso e alla fine Cecilia confessò l’omicidio, facendo un lungo racconto, che spiegava come si fosse arrivati alla tragedia in quella casa di Fosso Casale. La giovane riferì che il suo rapporto con lo zio, nella cui casa abitava insieme con la di lui moglie, che era sua zia, da qualche tempo erano assai tesi. Quando sua zia non c’era, lei dormiva nel suo letto coniugale e lui durante la notte cercava di tastarla e di possederla. Lei però si era sempre negata, anche quando il vecchio aveva cominciato a pressarla più da vicino. Sua zia sapeva che lui le faceva delle proposte oscene e per questo c’erano continue liti in casa, tra lei e il marito. Molto spesso sua zia, al culmine di una lite, lasciava casa sua e se ne andava a dormire a Rosburgo, in casa del figliastro Tobia Di Blasio. Così lei, Cecilia, tornava a coricarsi nel letto coniugale, insieme con suo zio, il quale tornava a pretendere che lei si congiungesse carnalmente con lui. Il vice Pretore le chiese come mai, visto il comportamento di suo zio, lei tornasse a coricarsi nello stesso suo letto quando sua zia se ne andava. Cecilia rispose che dormire nel letto coniugale era assai più comodo che dormire sul pagliericcio sistemato in cucina, sul pavimento, dove era solita dormire lei. “Tanto”  disse “io ero sicura del fatto mio e che sarei riuscita a resistere alle voglie di mio zio.”

      Poi però ammise che aveva iniziato sempre più spesso a dormire, quando sua zia non c’era, nella bottega del suo fidanzato, Biagio Bompadre, con il quale stava per sposarsi. Anche Biagio sapeva che lo zio le faceva delle proposte oscene. “Gli dicevo sempre che mi doveva togliere dal pericolo” riferì Cecilia. “Lui mi promise di sposarmi al più presto e di togliermi da quelle angustie. Ma intanto andò un paio di volte a parlare con mio zio, con il quale aveva una certa amicizia, ma entrambe le volte mio zio lo prese a male parole e lo cacciò via.”

      Il vice Pretore chiese a Cecilia di riferire con la massima accuratezza come avesse trascorso le ore precedenti al rinvenimento del cadavere dello zio. “Erano verso le otto di sera, forse le nove” raccontò Cecilia “e io stavo per recarmi a dormire nella bottega di Biagio, quando mio zio mi chiese di preparargli una pizza di farina di grano, per mangiarsela la mattina dopo alla fiera di Atri. Mentre la stavo preparando, in cucina, mio zio mi si avvicinò e cominciò ad ‘accimentarmi’, insistendo a propormi di andare a dormire insieme con lui, nel suo letto. Io mi rifiutai e gli risposi che dovevo andare a dormire con Biagio.”

      A quel punto, continuò Cecilia, suo zio se l’era presa a male, aveva cominciato a gridare: “Questa sera non te lo farò trovare!”. Poi si era armato di una scure e aveva detto che andava nella bottega di Biagio Bompadre a fargli la pelle. Poco dopo era tornato a casa, si era spogliato e si era coricato, invitandola a raggiungerlo nel suo letto. Lei aveva rifiutato ancora, così lui si era alzato dal letto, si era avventato contro e le aveva dato vari calci alla pancia, pur sapendo che era incinta. Solo in quel momento il vice Pretore seppe che la giovane era in stato interessante, particolare che prima non era ancora emerso. “Poi che avvenne? “ chiese il vice Pretore. Cecilia continuò dicendo che era caduta a terra e suo zio le aveva detto: “Chiedimi perdono!”. Lei, in preda ad un forte dolore, aveva gridato: “Madonna mia, aiutami!”. Intanto lui era tornato verso il suo letto, vi si era seduto sopra, appoggiando i piedi su una cassa di legno che si trovava sul lato destro del letto, e mentre cercava i panni per rivestirsi, minacciava di ucciderla con la scure che teneva appesa al muro accanto al letto. “Allora io” proseguì Cecilia “visto un coltello sul tavolo, lo presi e, afferrato mio zio con la mano sinistra ad una spalla, gli diedi un colpo di traverso alla gola e scappai, vedendo già il sangue che gli sgorgava dalla gola.  Lui mi inseguì, uscendo sulla strada provinciale, ma non riuscì a raggiungermi e ad un certo punto dovette tornare indietro, quando era distante dalla sua casa una diecina di metri.”

      Mentre la inseguiva, continuò Cecilia, il vecchio gridava: “Mi ha ucciso! Mi ha ucciso!”. Anche lei gridava, chiamando gente. Poi, visto che non era più inseguita, era ornata indietro, con molta circospezione, e ad un certo punto aveva scorto suo zio steso a terra, morto. Così aveva deciso di andare subito a Rosburgo, per avvertire dell’accaduto sua zia. “Quando mi vide” continuò Cecilia “mi chiese che cosa era successo. Io non ebbi il coraggio di dirle che avevo ucciso suo marito, così le dissi che a casa sua c’era suo padre, che voleva vederla. Poi, però, per strade le dissi la verità.” Sua zia, continuò Cecilia, le aveva detto: “L’hai ucciso? Hai fatto bene!”. Poi insieme erano arrivate sul luogo dove si trovava il morto e, arrivate, come aveva suggerito di fare la zia, si erano messe a gridare, per far accorrere gente. Ma prima sua zia aveva messo nelle mani del morto un coltello, preso nella cucina, dicendo: “Così si penserà ad un suicidio.”. Sua zia era poi rimasta accanto al morto, in mezzo alla gente che continuava ad arrivare dopo aver sentito gridare, e aveva affidato a lei l’incarico di andare a Notaresco ad avvertire i carabinieri, cosa che aveva fatto, facendosi accompagnare da un’altra nipote del morto, Domenica Pavone.  Ai carabinieri non aveva detto la verità sull’accaduto, tacendo sulle proprie responsabilità.

      Il vice Pretore non si accontentò della confessione di Cecilia, sia pure così ampia e circostanziata, ma fece alla giovane molte altre domande, sia sul comportamento suo e dello zio precedenti all’omicidio, sia nei momenti immediatamente successivi. Così emersero altri particolari, tutti assai importanti per inquadrare giudiziariamente il fatto. La zia, quando lei le raccontava di essere insidiata dal marito, le diceva : “Uccidilo! Uccidilo!” Quando era stata presa a calci dallo zio, poco prima dell’omicidio, lei si era messa a strillare forte ed  era stata udita da una vicina, Giuditta Braga, che era andata a chiamare un altro vicino, Luigi Di Bonaventura.

      Il vice Pretore avanzò l’ipotesi che ad istigarla al delitto potesse essere stato anche il suo amante, Biagio Bompadre, ma Cecilia negò che lo avesse fatto. Anzi, aggiunse, ogni volta che lei gli raccontava di essere stata insidiata dallo zio, lui le raccomandava di stare tranquilla, ma le consigliava di lasciare quella casa e andarsene con lui. Al termine dell’interrogatorio, Cecilia fu sottoposta a visita medica dal dottor Domenico Olivieri, il quale non riscontrò sul suo corpo nessuna lesione o né alcun altro segno visibile.

      Affidata Cecilia D’Antonio alla custodia dei Reali Carabinieri, il vice Pretore procedette subito dopo all’interrogatorio della moglie dell’ucciso, zia di Cecilia, Agata Ciarrocchi, di Francesco, fu Clementina Fioretti, di anni 45, contadina.  La donna ammise che per ragioni di gelosia aveva avuto più di una lite con il marito. Lui, nel corso delle tanti liti, le diceva: “Vattene, io resterò con tua nipote Cecilia.” Non alludeva tanto al fatto di voler dormire insieme con Cecilia, quanto al fatto che pensava di tenerla con sé, per farsi accudire nei suoi bisogni. Agata negò che la sera precedente ci fosse stata un’altra lite e dichiarò di essere andata a dormire a Rosburgo, in casa del figliastro perché era andata a chiamarla la moglie del figliastro, Antonietta Di Blasio. Quando il vice Pretore le chiese di dire cosa sapesse dell’omicidio del marito rispose: “Io non so niente. Non lo so che cosa è successo.” Riferì che verso le undici di sera o poco prima aveva bussato alla porta della casa dove si trovava, a Rosburgo, sua nipote Cecilia, che le aveva detto: “A casa di tuo marito è venuto tuo padre e ti vuole rivedere.” Lei, che già si era coricata, si era levata dal letto, si era vestita e si era avviata verso Fosso Casale, insieme con la nipote, che per via le aveva detto: “Zia, davanti a casa tua c’è lo zio, faccia  terra, e non lo so se è morto o se è vivo.”

Agata Ciarrocchi, interrogata dal vice pretore di Notaresco Montefusco nell’ambito dell’istruttoria per l’uccisione di suo marito Francesco Di Tecco, di cui la nipote Cecilia D’Antonio si era confessata responsabile, dichiarò: “Quando arrivammo a Fosso Casale, vidi che effettivamente mio marito stava in mezzo alla strada, steso a terra, nudo, bocconi. Mi misi a gridare. Intanto mia nipote e la moglie del mio figliastro, che mi avevano accompagnato, corsero a Notaresco ad avvertire la giustizia.”. La donna disse che sua nipote Cecilia non le aveva mai detto che suo marito la insidiava e lei non l’aveva istigata ad ucciderlo. E non sapeva che fosse stata lei ad ucciderlo, perché non le aveva detto niente. “Lo apprendo da Voi e rimango sorpresa” disse al vice pretore. Il quale le contestò che Cecilia aveva dichiarato di averla avvisata che aveva ucciso lo zio appena era arrivata a Rosburgo e che lei aveva risposto: “Hai fatto bene ad ucciderlo”. “Non è vero” si difese Agata. Il Pretore le contestò altre dichiarazioni di Cecilia, che sosteneva che la zia le avesse detto: “Quando saremo vicine a casa, io griderò per far sentire alla gente”. “Non è vero” disse ancora la donna. “E dice che poi arrivaste vicino al cadavere e le dicesti di prendere dentro casa un coltello e metterlo nella mano del morto, per far pensare ad un suicidio”. “Non è vero, mi dichiaro innocente di tutto”. Agata fu irremovibile e non ammise nulla di ciò che il Pretore voleva che ammettesse.

            L’esame autoptico effettuato il 29 ottobre 1898 dal dottor Carlo Romualdi e dal dottor Domenico Olivieri consentì di stabilire con certezza che causa unica e necessaria della morte era stata l’emorragia avvenuta per la recisione della carotide esterna di sinistra, prodotta con arma affilatissima.

            Alle ore 14 del 29 ottobre il vice pretore Montefusco interrogò nuovamente Cecilia D’Antonio, su richiesta della stessa giovane, che disse di voler dire la verità, visto che la sera precedente non l’aveva detta. Si era accusata dell’omicidio dello zio, ma non lo aveva commesso lei.  A tagliare la gola a suo zio era stato il suo amante, Biagio Bompadre.  Quando l’aveva sentita strillare, colpita al ventre da alcuni calci, dallo zio, che aveva reagito così al suo rifiuto di concedersi, era accorso, aveva aggredito lo zio e lo aveva ucciso. Lei dopo l’omicidio era scappata via di corsa. Del momento dell’omicidio fece una descrizione assai minuziosa. “Biagio Bompadre stava venendo a chiamarmi per portarmi a dormire con lui nella sua bottega, quando mi sentì gridare. Entrò in casa e in quel momento il marito di mia zia si trovava seduto sul letto con i piedi sulla cassa, perfettamente nudo, cercava la camicia e i vestiti per vestirsi” Lei e Biagio erano usciti per andare a dormire. Biagio aveva accelerato il passo, ma lei si era voltata indietro e aveva visto lo zio che veniva verso di loro al chiarore della luna. Si era accorta che grondava sangue, poi lui aveva detto: “Mi ha ucciso, mi ha ucciso.” Poi Bompadre era corso a chiamare Luigi Di Bonaventura, ma prima che Di Bonaventura, chiamato dalla finestra, scendesse sulla strada, lei si era avvicinato a Biagio ed era stato allora che lui le aveva detto: “Devi dire che sei stata tu”. Così, quando era sceso Luigi Di Bonaventura e aveva chiesto: “Che hai fatto, comare?”, lei aveva risposto: “L’ho ucciso. Mi ha dato dei calci alla pancia e io l’ho ucciso. Adesso vado ad avvertire mia zia di quello che è successo”. Poi si era allontanata. Prima di andare a Rosburgo, era tornata verso casa e aveva visto lo zio morto, steso a terra, bocconi.

            Il vice pretore gli chiese perché si fosse addossata la colpa dell’omicidio, se responsabile ne era il suo amante Biagio Bompadre. “L’ho fatto per salvare Biagio” rispose. “Ne sono stato e ne sono innamoratissimo, tanto che avevamo deciso di sposarci, abbiamo già ordinato le carte, io a Morrodoro e lui a Giulianova, dove è nato. Il vice pretore le chiese come mai, allora, si fosse deciso a dire la verità, e Cecilia rispose ce si resa conto che, difendendo Biagio, danneggiava se stessa e così aveva deciso di parlare. Come testi a discarico, indicò Franco Di Bonaventura e Santa Braga, che conoscevano i continui tentativi di insidiarla del marito di sua zia.  Il vice pretore le chiese se avesse avuto altri amanti in precedenza e lei rispose: “Da quando sono stata abbandonata dal mio primo amante, Antonio Martini, il figliastro di Giovangiuseppe Rosini, residente a Teramo, non ho avuto relazioni carnali con altri uomini, se non con Biagio Bompadre, che mi ha messo incinta.  Qualche volta, vari mesi orsono, e prima di diventare l’amante ufficiale di Bompadre, confesso di aver concesso eccezionalmente le mie grazie a qualche altro che, per delicatezza, non credo nominare”.

            Il vice pretore le mostrò un rasoio e le chiese se lo riconoscesse. Cecilia disse che era quello che il marito di sua zia usava per radersi. E aggiunse: “Ricordo che la sera del delitto questo rasoio si trovava insieme con un coltello da tavola sopra un tavolino, accanto al suo letto.” Poi disse ancora che qualche ora prima Biagio aveva detto: “Questa notte lo finirò io”. Lo aveva fatto davanti a Luigi Triozzi, che era di Mutignano e avrebbe potuto confermarlo. Il vice pretore invitò una nota al Procuratore del Re sulla nuova versione di Cecilia D’Antonio e qualche ora dopo Biagio Bompadre, soprannominato “Gallinelli”, di Antonio e di Filomena Patacca, di anni 35, falegname, fu arrestato. Sottoposto a stringente interrogatorio, si dichiarò innocente e si disse assai sorpreso delle accuse che faceva Cecilia D’Antonio. Dichiarò: “La sera del fatto mi trovavo a giocare a carte con Luigi Di Bonaventura, Costantino D’Emidio e Nunzio Trotta. Quando gli altri se ne andarono, rimasi solo con Di Bonaventura, il quale mi parlò di alcuni lavori da farsi per il mio mestiere. Uscimmo in strada e, mentre Di Bonaventura continuava a discorrere, lui venne chiamato da Giuditta Braca e andò a casa sua. Io rimasi in strada e feci alcuni passi per avviarmi verso casa, quando Di Bonaventura mi chiamò e mi disse di avvicinarmi. Aveva già parlato con la Braga e, quando mi chiamò, si trovava accanto alla porta di casa sua. Lui mi disse di non andare verso la casa di Francesco Di Tecco, perché si sentiva del chiasso e mi consigliò di tornare a casa passando per un’altra strada. “

            Era stato in quel momento, continuò Biagio Bompadre, che era arrivata Cecilia e rivolta a lui e Di Bonaventura, aveva detto: “Finalmente l’ho fatto il pollastro.” Dopo che ebbe più volte ripetuto la sua innocenza, riconobbe il rasoio che gli venne mostrato dal vice pretore. Era quello che aveva tolto dalle mani di Cecilia e aveva poi lui stesso consegnato ai carabinieri. Negò che Di Tecco lo avesse cacciato una volta da casa sua e di essere stato da lui minacciato con una scure. Negò anche di essere l’amante ufficiale di Cecilia e di aver progettato di sposarla. “L’ho goduta qualche volta” dichiarò, “un po’ più degli altri, ma solo lei può asserire che l’avrei sposata, io non l’ho mai detto.”

            Agata Ciarrocchi, nuovamente interrogata, smentì molte dichiarazioni della nipote Cecilia. Disse che non aveva mai saputo che suo marito la insidiasse, che lei non le aveva mai detto che lo doveva uccidere, che quando aveva saputo della morte del marito aveva cominciato a piangere a dirotto e a gridare, buttandosi poi sul corpo del marito morto. Non sapeva perché sua nipote l’accusava e perché fosse così malvagia.  Riconobbe il rasoio che gli fu mostrato. Era di suo marito.

            Quando Cecilia D’Antonio fu interrogata nuovamente, domenica 30 ottobre 1898, dal vice pretore Montefusco, sempre su sua richiesta, disse che non aveva detto tutta la verità, ma che era decisa a dirla. Così arrivò la sua terza versione dei fatti…

continua