L'omicidio di Fosso Casale

seconda parte

          Domenica 30 ottobre 1898 Cecilia D’Antonio chiese nuovamente di poter parlare con il vice pretore di Notaresco Montefusco e disse che questa volta era veramente decisa a dire la verità, che finora non aveva ancora detta. L’omicidio del marito di sua zia, dichiarò, era stato programmato per domenica 23 ottobre ed era stata lei ad evitarlo. Il suo amante, Biagio Bompadre, quello stesso giorno le aveva confidato di voler uccidere Francesco De Tecco, perché lui la insidiava. Ma questo era un pretesto. Voleva ucciderlo perché alcuni suoi nemici gli avevano promesso in cambio dei regali. Il vice pretore gli chiese chi fossero quei nemici che volevano la morte del vecchio. “Sono Franco Di Bonaventura e il nipote Luigi” rispose Cecilia, la quale aggiunse che quella domenica era stata lei a sventare l’omicidio, ma la sera del delitto non ci era riuscita.  “Quella sera” dichiarò “Biagio Bompadre e Luigi Di Bonaventura mi dissero che Di Tecco sarebbe stato ucciso e alla mia presenza Di Bonaventura disse a Biagio che, se lo avesse ucciso, gli avrebbe fatto un bel regalo. Io mi allontanai e loro due, insieme con alcuni altri, si misero a giocare a carte in casa di Di Bonaventura, fino ad una certa ora. Mentre giocavano, mi affacciai alla porta e vidi Bompadre e Di Bonaventura insieme con due falegnami, due muratori e un altro, un impiegato del municipio di Montepagano.”

            Cecilia proseguì dicendo di aver capito che stavano andando ad uccidere il marito di sua zia. Dopo, a delitto commesso, aveva confessato di essere stata lei. Poco dopo, Di Bonaventura, dopo aver parlato brevemente con Giuditta Braga, le aveva detto: “Va a vedere se è morto. Porta anche un po’ di sangue.” Lei era tornata verso casa e aveva visto lo zio steso a terra, morto. Aveva bagnato la punta delle sue dita nel sangue e si era ripresentata a Di Bonaventura e a Bompadre, i quali le avevano detto che doveva andare a costituirsi. Lei aveva risposto che ci sarebbe andata, se l’avessero accompagnata. Ma loro si erano rifiutati di accompagnarla, così lei era andata ad avvertire sua zia della morte del marito. Il resto era andato come aveva già detto le altre volte. Il vice pretore le chiese di raccontare con maggiore precisione come era avvenuto l’omicidio e Cecilia disse: “Ho sentito Biagio che questionava con il vecchio. Poi è entrato nella stanza dove stava il vecchio e col rasoio che ha trovato sul suo tavolo gli ha tagliato la gola e poi è fuggito. Il resto lo conoscete. Quando io e Bompadre fummo alla presenza di Di Bonaventura, questi mostrava di fare lo stupido, ma sapeva tutto. I due mi dissero che, se andavo a costituirmi, loro mi avrebbero aiutato.”

            Subito dopo aver raccolto la nuova deposizione di Cecilia D’Antonio, il Giudice Istruttore Mastrocinque ordinò che lei, Agata Ciarrocchi e Biagio Bompadre fossero portati in stati di arresto nel carcere di Notaresco, dove, però, c’era una sola cella femminile e non era opportuno che la zia e la nipote stessero insieme nella stessa cella, tanto più che sarebbero rimaste solo per l’imminente scarcerazione di due detenute che vi si trovavano. Così si dovette sistemare Cecilia in una cella maschile, da dove furono trasferiti i due detenuti che vi si trovavano.

            Alle 15 del successivo giovedì 3 novembre, su mandato di cattura del Giudice Mastocinque,  fu arrestato anche Luigi Di Bonaventura, fu Emidio e di Splendora Sebastiani, di anni 35, nato e domiciliato a Montepagano, coniugato con Anna Vincenza Di Bonaventura, con prole, indiziato di correità. Fu tenuto nella sua casa di Notaresco, piantonato da due carabinieri, perché affetto di erisipela facciale e dichiarato dal medico intrasportabile. Interrogato sabato 5 novembre dal vice pretore, dichiarò: “Io non ho avuto nessuna parte dell’omicidio di Francesco Di Tecco. Il delitto è stato commesso solo da Cecilia D’Antonio.” Di Bonaventura raccontò che dopo aver commesso l’omicidio gli aveva detto: “Caro compare, l’ho fatto finalmente.” Dichiarò che la sera del delitto, dopo aver giocato a carte in casa sua con alcuni amici e dopo aver cenato, era stato chiamato da Giuditta Braga, che era affacciata alla finestra della sua abitazione. Lui che era in compagnia di Bompadre, si era avvicinato e la Braga, gli aveva detto: “Qua a Cerase, che era il soprannome di Di Tecco, stanno questionando zio e nipote, e quest’ultima sta dicendo allo zio: - Chiedimi perdono. Forse gli avrà fatto sangue.”

            A tali parole, continuò Di Bonaventura, era tornato da Biagio Bompadre per convincerlo a tornare indietro e non farlo trovare nella questione, temendo che potesse compromettersi. Bompadre gli si era avvicinato, e, poco dopo, era comparsa Cecilia D’Antonio. Prima ancora che qualcuno le dicesse qualche cosa, aveva esclamato: “Caro compare, l’ho fatto!”. Proprio in quel momento si erano sentite delle grida roche, Era il vecchio Di Tecco che diceva: “Mi ha ucciso, Mi ha ucciso! Correte!”. Né lui né Bompadre erano accorsi e Cecilia aveva raccontato che suo zio l’aveva insidiata e l’aveva percossa alla pancia dopo il suo rifiuto. Così lei le aveva dato un colpo. Ma non aveva specificato con che cosa lo avesse colpito. Poi aveva detto che andava a costituirsi dal vice pretore e si era allontanata. Prima però aveva consegnato a Bompadre un oggetto e solo il mattino dopo aveva saputo che si trattava di un rasoio. Dopo aver consigliato a Bompadre di tornarsene a casa, ma passando sulle sue terre, non sulla via ordinaria, lui si era avvicinato alla casa di Giuditta Braga, la quale gli aveva detto di aver visto il vecchio Di Tecco uscire da casa e avviarsi lungo la strada per Notaresco. Lui aveva risposto di non averlo incontrato e la Braga aveva osservato: “Allora sarà morto, perché gli ho visto uscire il sangue dalla bocca.” In quel momento era ricomparsa Cecilia, che aveva detto: “Mi sono affacciata e l’ho visto steso davanti alla porta.”. Gli aveva chiesto di consigliarle cosa fare e lui aveva risposto: “Vatti a costituire, come hai detto prima di voler fare, perché il fatto lo sa anche Giuditta Braga e io non posso tacere.”. Allora lei si era allontanata nuovamente, dopo avergli dato la buonasera e avergli detto che, prima di andarsi a costituire, doveva andare a bagnarsi le mani nel sangue dello zio”.

            Partita Cecilia, concluse Luigi Di Bonaventura, lui era tornato a casa sua e si era messo a dormire. Qualche ora dopo, era stato svegliato dalle grida della moglie del morto. Negò ogni suo coinvolgimento dell’omicidio e di sapere qualcosa del tentativo di compierlo già domenica 23 ottobre. Disse di non essere in buoni rapporti con suo zio Franco Di Bonaventura, di cui conosceva le liti che aveva avuto con Di Tecco, ma  lui non si era mai immischiato. Era buon amico di Di Tecco e non aveva alcuna ragione per volere la sua morte. Se quest’ultimo aveva avuto della questioni con Di Tecco, lui in quelle cose non mi era mai immischiato. Non era vero che aveva promesso a Bompadre un regalo se avesse ucciso il vecchio. “Dite la verità!” lo incalzò il vice pretore. “Cecilia D’Antonio dice che dopo il gioco a carte e la cena tu e Bompadre usciste in strada per andare ad uccidere Di Tecco, e tu, chiamato dalla Braga, ti fermasti, mentre Bompadre proseguì da solo e andò ad ucciderlo, tagliandogli la gola col rasoio.”. “Non è vero!” replicò Luigi Di Bonaventura, il quale negò anche che Bompadre aveva detto a Cecilia: “Va a vedere e porta un po’ di sangue” e che Cecilia avesse poi portato del sangue sulla punta delle dita. Non era vero nemmeno che lui aveva detto a Cecilia: “Vatti a costituire, che a te ci penseremo noi ad aiutarti.”

            Al termine dell’interrogatorio, il vice pretore Montefusco rimise gli atti al Giudice Istruttore e dispose il trasferimento nel carcere di Teramo di Luigi Di Bonaventura, che in un loro rapporto i carabinieri di Notaresco riferirono essere in rapporti non buoni con l’ucciso Di Tecco. Il quale ve aveva addirittura pessimi con lo zio di Luigi Di Bonaventura, l’81enne Franco, tanto da aver avuto con lui un alterco che aveva portato ad un reciproco ferimento e ad una reciproca denuncia penale.

Fu il Giudice Istruttore Raffaele Mastrocinque a compiere tutti gli atti istruttori sull’omicidio di Fosso Casale. Diversi testimoni riferirono che fra Cecilia D’Antonio, sua zia Agata Ciarrocchi e suo zio Francesco Di Tecco erano frequenti le liti, che tanto Cecilia che il suo fidanzato Biagio Bompadre più volte avevano proferito minacce all’indirizzo del Di Tecco, che una volta Cecilia era andata nella bottega di Biagio e gli aveva chiesto in prestito un coltello a serramanico, dicendo che volentieri lo avrebbe fatto “provare” al marito di sua zia. Un’altra teste dichiarò che, avendola vista pochi giorni prima dell’uccisione di Di Tecco con un coltello in mano, le aveva sentito dire che aveva l’intenzione di compiere un omicidio. Altri testi riferirono che Cecilia aveva però pronunciato parole di minaccia anche nei confronti di Biagio Bompadre, con cui aveva relazioni intime e dal quale sperava di essere sposata. Un giorno aveva detto: “Se per caso dovessi rimanere in mezzo ad una strada, con le budella di Biagio ci faccio le mazzarelle”.

            Nel corso di un drammatico confronto, Cecilia D’Antonio, dopo aver accusato dell’omicidio Biagio Bompadre, che negò ostinatamente, finì con l’ammettere la sua innocenza, tornando alla prima versione: era stata lei a uccidere il marito di sua zia, a causa delle sue continue molestie sessuali e dopo un ennesimo tentativo di usarle violenza. Nel corso di un altro confronto, Agata Ciarrocchi, dopo avere inizialmente negato di essere stato a conoscenza delle molestie del marito nei confronti della nipote, finì per ammettere quanto Cecilia la invitava a ricordare, compreso un episodio particolare. Di Tecco, pur trovandosi a letto insieme con la moglie, aveva preso a tastare Cecilia, che giaceva anche lei nel letto, e, rimproverato dalla moglie aveva risposto che voleva soltanto vedere “come era fatta di sotto la giovane”, non intendeva toccarla. Agata ammise anche che a volte aveva detto alla nipote, quando costei e riferiva le molestie, “Uccidilo, uccidilo”, ma precisò di averlo detto solo per scherzo, non sul serio, e che, infornata dell’omicidio, aveva detto alla nipote: “Se lo hai ucciso, hai fatto bene”. Ammise anche di aver messo accanto al cadavere del marito, arrivata a Fosso Casale, un coltello, per far credere che si fosse suicidato, ma disse di averlo fatto solo per pietà nei confronti della nipote Cecilia, per salvarla. Qualche giorno dopo, tuttavia, ritrattò quanto aveva ammesso durante il confronto, sostenendo di averlo fatto perché durante il confronto sua nipote la toccava con il piede e lei, impaurita, aveva finito per ammettere tutto quanto Cecilia veniva affermando, ma che non era vero. Mai sua nipote si era lagnata delle molestie del marito, anche se lei aveva avuto qualche sospetto, soprattutto dopo che aveva detto a suo marito che era meglio rimandare dai suoi genitori Cecilia, che era una poco di buono e faceva sparlare di sé la gente del paese per la sua scandalosa relazione con Biagio Bompadre. Ciò che l’aveva insospettita era stato il fatto che suo marito non aveva accettato il suo consiglio, anzi, al contrario, aveva invitato lei ad andarsene di casa, dicendosi intenzionato a tenere con sé Cecilia. Ritrattò anche le altre sue dichiarazioni, sul coltello che aveva ammesso di aver messo accanto al cadavere del marito e la sua approvazione dell’omicidio una volta che ne era venuta a conoscenza. Fu subito disposto un nuovo confronto tra zia e nipote, che fu assai drammatico, e questa volta le loro posizioni furono del tutto contrastanti e l’atteggiamento di entrambi risultò irremovibile. Agata disse a Cecilia: “Ho ammesso quelle cose perché tu mi toccavi con il piede e io mi sono impaurita”. Successivamente, però, finì per ammettere nuovamente tutte le circostanze già ammesse nel primo confronto, ritrattando in pratica la sua ritrattazione.

            Il 27 novembre 1898 il Giudice Istruttore Mastrocinque chiese al Procuratore Generale del Re il rinvio a giudizio di Agata Ciarrocchi, ritenuta unica esecutrice dell’omicidio e rea confessa, e di Cecilia D’Antonio, ritenuta istigatrice e complice, che aveva qualche precedente penale per furto semplice e aggravato, reati da cui era stata assolta per non provata reità, e il non luogo a procedere per insufficienza di indizi nei confronti di Biagio Bompadre e Luigi Di Bonaventura. La Camera di Consiglio presso il Tribunale di Teramo il 2 dicembre fece proprie le conclusioni del Giudice Istruttore e trasmise gli atti per l’ulteriore corso di giustizia al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello dell’Aquila, il quale il 15 dicembre avanzò alla Sezione di Accusa richiesta di rinvio a giudizio presso la Corte d’Assise di Teramo. La sezione d’Accusa accolse in pieno la richiesta, giudicando che la volontà omicida di Cecilia D’Antonio risultasse provata dall’arma adoperata, un affilato rasoio, dalla violenza estrema del colpo inferto in direzione della carotide sinistra della vittima e dall’aver confessato il reato, aggiungendo di essere stata istigata a compierlo dalla zia Agata Ciarrocchi. Di quest’ultima la Sezione d’Accusa diceva che la sua correità era pure pienamente provata: ella aveva eccitato e rafforzato la risoluzione a commettere l’omicidio, come aveva confessato.

            Interrogata il 31 gennaio 1899 nel carcere Sant’Agostino di Teramo dal Giudice Alfredo Grumelli, Cecilia D’Antonio confermò quanto aveva dichiarato nella sua prima deposizione davanti al vice pretore di Notaresco, dicendo che aveva accusato il suo amante Biagio Bompadre solo perché alcune detenute che si trovavano insieme con nei nel carcere di Notaresco le avevano suggerito di farlo, per salvare se stessa. Le fu assegnato come difensore d’ufficio l’avv. Francesco Sagaria, ma il successivo 11 febbraio nominò quale difensore di fiducia l’avv. Gustavo De Marco. Agata Ciarrocchi nominò quale difensore di fiducia l’avv. Ignazio Marcozzi. Il 31enne Massimo Pavone, detto Romano, fu individuato come parente più prossimo della vittima, essendo suo nipote, e fu citato a comparire come parte civile nel processo che fu celebrato nell’aula della Corte d’Assise di Teramo  sabato 4 marzo 1899.

            La Corte d’Assise di Teramo, presieduta da Giovanni Palmieri e composta da Berardo Quartapelle e Alfonso Grumelli (la giuria era presieduta da Ernesto D’Annunzio), giudicò Cecilia D’Antonio, di Biase e di Angela Panico, nata a Morro d’oro il 23 luglio 1879 e residente a Montepagano (il cui difensore avv. Flaviano De Marco aveva chiesto il riconoscimento della legittima difesa e in subordine l’eccesso di difesa), colpevole di omicidio volontario con eccesso di difesa; le concesse le circostanze attenuanti e la condannò alla pena di 4 anni e 2 mesi di reclusione, al pagamento delle spese processuali e al risarcimento della parte lesa. La zia di Cecilia e moglie dell’ucciso, Agata Ciarrocchi, di Francesco e di Fioretti Maria Domenica, nata a Morro d’Oro il 24 dicembre 1851 e residente a Montepagano (il cui difensore aveva chiesto l’assoluzione piena), fu giudicata non colpevole e assolta. Il giorno successivo Cecilia D’Antonio presentò ricorso in Cassazione contro la sentenza e qualche giorno dopo la richiesta di libertà provvisoria per buona condotta, richiesta che fu accordata dietro una cauzione di cento lire.

            Il 10 maggio 1899 la Cassazione rigettò il ricorso di Cecilia D’Antonio e confermò la sentenza di condanna della Corte d’Assise di Teramo. Nel mese di luglio Agata Ciarrocchi chiese al Tribunale la restituzione dei corpi di reato sequestrati nella sua casa, un paio di lenzuola, una coperta e un grembiule e la richiesta venne accolta. Così nel mese di agosto la donna poté rientrane in possesso. A sua nipote Cecilia il 6 dicembre del 1900 fu condonato un anno e così vide la sua pena ridotta, ma, poiché era già in libertà, la decisione non ebbe alcun effetto pratico.