Un'evasione e una sfortunata fuga sui tetti

 

Alle 16,30 di domenica 28 maggio 1922, il maresciallo maggiore a cavallo, Salvatore Masoni, comandante la stazione dei carabinieri di Teramo, il brigadiere a piedi Giuseppe Amato, il vicebrigadiere Augusto Sabatini e l’appuntato Giuseppe D’Onofrio, tutti della stessa stazione, redassero un verbale da rimettere alla Procura del Re di Teramo su quanto era accaduto il giorno precedente, sabato 27 maggio.

      Il brigadiere a piedi Leonardo Svegliati, e i carabinieri a piedi Eugenio Perfetti e Oliviero Taddei, erano stati comandati di servizio al Tribunale di Teramo per tradurvi il pregiudicato Oreste Cozzolini, fu Innocente e di Mariagrazia Bellafronte, di anni 23, sarto, imputato di rapina e detenuto nel carcere di Teramo.

      Il processo a carico di Cozzolini era stato sospeso alle ore 12 ed era ripreso nel pomeriggio, alle 16,30. Il brigadiere Svegliati, quale caposcorta, aveva collocato i due carabinieri ai lati della gabbia dove era rinchiuso l’imputato, e precisamente il carabiniere Taddei accanto alla zona riservata al pubblico e il carabiniere Perfetti accanto al cancelletto, che si trovava a poca distanza da una porticina riservata ai giudici e al passaggio dei militari dell’Arma comandati di accompagnare i detenuti in aula. La porticina dava su un corridoio che portava alla camera di sicurezza.

      Verso le 18,30 il processo si era concluso con la condanna di Oreste Cozzolini a 3 anni e 8 mesi di reclusione, oltre che ad 1 anno di vigilanza speciale, I giudici erano tornati in camera di consiglio e il pubblico aveva abbandonato l’aula. Il brigadiere Svegliati aveva ordinato al carabiniere Perfetti di recarsi in camera di sicurezza a prendere i ferri da applicare al detenuto ed egli stesso aveva preso personalmente il posto di Perfetti accanto al cancelletto.  Il carabiniere Perfetti, a causa dell’oscurità, non era riuscito a trovare le manette e, affacciatosi alla porticina, aveva informato il brigadiere Svegliati. Questi, non aveva pensato di dire al carabiniere Perfetti di tornare al suo posto, aveva lasciato il suo, accanto al cancelletto, e aveva raggiunto Perfetti per aiutarlo a trovare le manette.

      A quel punto, accortosi di essere sorvegliato soltanto da un carabiniere, il detenuto aveva sollevato il cancelletto, che, non avendo i cardini bene avvitati, si era aperto facilmente. Agile e svelto come un gatto, si era poi avviato lungo il corridoio, invano inseguito dal carabiniere Taddei, e si era dileguato. Nella sua rincorsa, Taddei era stato ostacolato da sedie, panche e altre suppellettili, tra cui la sedie del Pubblico Ministero. Alle sue grida, erano accorsi anche il brigadiere Svegliati e il carabiniere Perfetti, che avevano inseguito anche loro giù per le scale del Tribunale il detenuto, che non però non era stato possibile raggiungere e che, arrivato in Piazza Vittorio Emanuele, era scomparso alla vista, infilandosi in una delle viuzze circostanti.

      Riuscito vano l’inseguimento, i militari erano subito corsi in caserma e avevano avvisato dell’avvenuta evasione i loro superiori. Erano state avviate le necessarie ricerche e pattuglie di carabinieri avevano perlustrato il centro cittadino e i due lungofiumi, ma dell’evaso non si era trovata alcuna nessuno traccia e nessuno lo aveva visto. Aveva preso parte alle ricerche anche l’agente investigativo Umberto Belmonte, che molto si era adoperato, ma senza successo.

      Verso le 24 il brigadiere Giuseppe Amato e il carabiniere Angelo Scoponi, in automobile chiusa, dopo aver perlustrato senza esito la statale per Giulianova, stavano tornando verso Teramo, quando, arrivati poco lontano dal ponte delle ferrovia, avevano scorto tre persone che a piedi stavano per imboccare una strada campestre che costeggiava il Vezzola. La presenza dei tre, riconosciuti come la madre, la sorella e il cognato di  Cozzolini, aveva confermato che l’evaso, come era stato segnalato, si trovava proprio da quelle parti. I militari avevano imboccato anche loro la strada campestre e poco dopo avevano scorto un individuo che correva per i campi e i canneti. Lo avevano inseguito, ma inutilmente, in quanto lo sconosciuto aveva approfittato dell’oscurità della notte per dileguarsi. I parenti del ricercato erano stati accompagnati in caserma. Interrogati, avevano negato di trovarsi in quel luogo e di notte per incontrarsi con il loro congiunto evaso e nascosto lungo il torrente Vezzola.

      I carabinieri avevano disposto un servizio di pattugliamento dell’abitazione del cognato di Cozzolini, identificato come Bruno De Blasiis, fu Alfonso e di Rosa Agnelli, sospettando che l’evaso, privo di denaro, la raggiungesse per approvvigionarsene. Verso le due di notte, non avendo visto nessuno avvicinarsi, i carabinieri avevano deciso di fare irruzione nell’abitazione, pesando che il ricercato potesse esservisi già rifugiato in precedenza. Poco prima dell’irruzione, avendo bussato alla porta e intimato di aprire a chiunque si trovasse nell’interno, era stato scorto un individuo affacciarsi ad una finestra e calarsi nel sottostante giardino dell’avv. Mariani. Poi servendosi di una scala, dal giardino l’individuo, che era stato riconosciuto essere proprio Cozzolini, si era arrampicato sul tetto di un’abitazione vicina e da qui era passato su un altro tetto e poi su altri, di casa in casa, arrivando, sempre passando per i tetti, sopra quello della casa Palombieri, che era alto circa 13 metri dal suolo.

      Il ricercato era stato inseguito dai carabinieri, che si erano arrampicati anche loro sul tetto, ed era stato avvistato, nascosto dietro un comignolo, dal vicebrigadiere Sabatini e dall’appuntato D’Onofrio, che per primi lo avevano raggiunto. Cozzolini, quando aveva visto appuntato avvicinarsi a lui con l’intenzione di afferrarlo e di arrestarlo, si era avvicinato al cornicione della casa con l’intenzione di spiccare un salto e raggiungere il tetto di una casa vicina, dall’altre parte della strada. Non lo aveva però raggiunto ed era precipitato sul sottostante selciato, dove era stato poi trovato privo di sensi e gravemente ferito al capo. Soccorso, era stato trasportato all’Ospedale, dove, dopo circa due ore, senza mai riacquistare i sensi, era morto, Indosso gli erano state rinvenute 50 lire in biglietti da 10.

      Il dottor Tommaso Gaspari, che aveva visitato il ferito al suo arrivo in Ospedale, riscontrò una piccola ferita lacero-contusa alla regione occipitale destra, fuoruscita di sangue dall’orecchio e dal naso, una grave lesione traumatica alla spalla destra e qualche contusione agli arti inferiori. Certamente, scrisse il dott. Gaspari, vi era stata la frattura della base cranica, che aveva provocato la morte, sopraggiunta in poco tempo. Il cadavere era stato trasportato nella camera mortuaria a disposizione del magistrato.

      La ricognizione necroscopica venne effettuata nel tardo pomeriggio di domenica 28 maggio dallo stesso dott. Tommaso Gaspari, alla presenza del Giudice Istruttore Antonio Vigorita. Il riconoscimento ufficiale della salma venne effettuata da Filippo Sciroli, infermiere dell’Ospedale, e Angelo Cocciolito, impiegato. Il morto indossava giacca e pantaloni di stoffa scura e non aveva scarpe. Il dott. Gaspari confermò che, come aveva ipotizzato all’arrivo del ferito in Ospedale, ci si trovava in presenza di una frattura della base cranica e di una imponente emorragia endocranica che erano state causa esclusiva della morte. La frattura delle ossa della spalla destra era compatibile con una rovinosa caduta dall’alto su corpo duro.

      Lunedì 29 maggio il Giudice Istruttore Vigorita rimise gli atti al P.M. il quale richiese al comandante della stazione dei carabinieri di Teramo le generalità complete del sottufficiale che comandava il servizio di trasporto e di sorveglianza in Tribunale dell’imputato detenuto Oreste Cozzolini. Si trattava di Leonardo Svegliati, fu Torquato e di Maria Galeazzi, nato il 23 agosto 1889 a Ficano (Macerata). Furono anche richieste al Comune di Teramo, che le fornì, le generalità dei parenti più stretti del morto, che risultarono essere la madre, Mariagrazia Barlafante, vedova Cozzolini, le sorelle Maria Di Berardino, fu Antonio, maritata con Bruno De Blasiis, Felicita Cozzolini, di anni 26, Margherita Cozzolini, di anni 16 e il fratello Antonio Cozzolini, di anni 20.

      Mariagrazia Barlafante venne ascoltata dal Procuratore del Re Vincenzo Colavecchi la mattina di domenica 11 giugno 1922. La donna chiese la punizione dei colpevoli della morte del figlio Oreste e chiese la restituzione della 50 lire che gli erano state trovate addosso e che, disse, gli aveva dato lei stessa nel carcere il giorno stesso della sua morte. La sorella di Oreste Cozzolini, Margherita, di 16 anni, sentita subito dopo, chiese anche lei la punizione dei responsabili della morte del fratello, deplorando il comportamento dei carabinieri che senza ragione, avvistatolo in campagna, avevano esploso contro di lui numerosi colpi di rivoltella. La mattina di lunedì 12 giugno raccolse la deposizione del brigadiere dei carabinieri Giuseppe Amato, il quale confermò il rapporto del 28 maggio. Precisò che nella prima fase delle ricerche del detenuto evaso, essendo giunta al comando l’informazione che Cozzolini si era nascosto in una campagna lungo il Vezzola, erano state inviate diverse squadre e che, dopo l’avvistamento, erano stati esplosi dei colpi di rivoltella, ma non contro l’evaso, bensì  come segnale di avvertimento per le pattuglie che si trovavano nei paraggi e farle accorrere sul luogo. I colpi erano stati esplosi tutti in aria, due da lui stesso e quattro dal carabiniere Angelo Scoponi. Pertanto erano vane le “lagnanze” dei familiari del Cozzolini, il quale, tra l’altro, si era dileguato nell’oscurità, “per nulla intimidito dai colpi”.

      Sempre la stessa mattina del 12 giugno venne sentito dal Procuratore Colavecchi l’appuntato dei carabinieri Giuseppe D’Onofrio, il quale, dopo aver confermato per la parte che lo riguardava il rapporto del 28 maggio, precisò che non aveva preso parte all’inseguimento dell’evaso per le campagne, ma a quello sopra i tetti. Era stato alla sua vista che aveva tentato, con un salto, di raggiungere un tetto più basso di una casa che si trovava dall’altra parte della strada. Non si era accorto che era precipitato sulla via, perciò aveva esploso un colpo di rivoltella per richiamare  l’attenzione degli agenti che stavano nei dintorni della casa Palombieri, Aveva anche gridato, proprio per avvertire gli altri: “Ha saltato!” Ma, subito dopo aver gridato, aveva sentito il tonfo della caduta.

      La mattina di venerdì 16 giugno vennero ascoltate le due sorelle di Oreste Cozzolini, Maria Di Berardino, maritata con Bruno De Blasiis, e Felicita Cuzzolini. Entrambe chiamarono in causa le responsabilità dei carabinieri nella morte del fratello. La prima disse che quando erano entrati in casa sua, pensando di trovarlo lì, avevano tutti le armi puntate, pronti a sparare, e che proprio per la paura di essere ucciso Oreste era scappato sui tetti. Anche sul tetto si erano sentiti degli spari e subito dopo gli spari c’era stata la caduta fatale. Felicita non seppe fornire molte indicazioni. Fino a mezzanotte, riferì, era stata a lavorare nel Bar Americano e subito era andata a dormire, a casa sua, che era diversa da quella della sorella.

      Il brigadiere Leonardo Svegliati, fu denunziato per avere con la sua negligenza e imprudenza cagionato l’evasione di Oreste Cuzzolini, per la cui custodia, trattandosi di un pregiudicato tra i più truci e sanguinari, l’autorità di P.S. e i carabinieri avevano centuplicato la loro attività. Nella sua relazione il P.M. Vincenzo Colavecchi ricostruiva le fasi dell’evasione, della ricerca, prima in campagna e poi sui tetti delle case del centro cittadino di Teramo e infine la fatale caduta da un’altezza di circa tredici metri. Dopo di che considerava che, in punto di diritto, non era sostenibile la teoria della prevedibilità come fondamento dell’imputazione, in quanto non era prevedibile l’evasione del Cozzolini dalla gabbia degli imputati, tanto più che il brigadiere Svegliati ignorava il difettoso congegno di chiusura del cancelletto. Tuttavia era innegabile la colpa del brigadiere nel contravvenire alle norme regolamentari, che prescrivevano rigorosamente ai carabinieri di scorta ai detenuti di non perderne il contatto e la vista. L’allontanamento del brigadiere, che aveva raggiunto il carabiniere per coadiuvare con lui alla ricerca delle manette, aveva costituito la causa efficiente dell’evasione, che non si sarebbe verificata se la condotta del brigadiere fossa stata diversa e ligia al regolamenti.

      L’aver partecipato attivamente alla ricerca dell’evaso faceva meritare però al brigadiere Svegliati il riconoscimento dell’esenzione della pena prevista dal codine penale per il pubblico ufficiale che, entro tre mesi dall’evasione, avesse procurato la cattura dell’evaso. Certo, la morte dell’evaso aveva di fatto reso impossibile la sua cattura da parte del brigadiere. Sembrava quindi poter ricorrere il caso del mancato riconoscimento dell’esenzione di pena al pubblico ufficiale che uccidesse il ricercato e quindi vanificasse la possibilità di poter restituire alla giustizia una persona e non un cadavere. Ma la morte di Cozzolini era stata del tutto indipendente dalla volontà del brigadiere Salvati , senza la caduta accidentale, la sua cattura sarebbe stata un fatto certo, al quale il brigadiere aveva fattivamente collaborato.

      Sulla base di queste argomentazioni il P.M. Colavecchi chiese il 21 giugno 1922 il non doversi procedere nei confronti del brigadiere Leonardo Salvati per il delitto di negligenza ed imprudenza “per aver procurato la cattura dell’evaso”. Con separato provvedimento chiese l’archiviazione degli atti relativi alla morte del Cozzolini, per essere stata la stessa del tutto accidentale e per non esservi ravvisata nella circostanza alcune responsabilità penale.

      Il successivo 8 luglio 1922 il Giudice Istruttore Antonio Vigorita si conformò alla richiesta del P.M. Colavecchi e dichiarò il non doversi procedere né nei confronti del brigadiere per le responsabilità nell’evasione del detenuto né nei confronti di chicchessia per la morte di Cozzolini. Contestualmente, ordinò la restituzione delle 50 lire rinvenute addosso al morto a sua madre, a cui favore avevano rinunciato le sorelle e il fratello come suoi eredi. La restituzione avvenne il 12 agosto.