"Mi chiamo Antonio Lavalle"

 

      “Mi chiamo Antonio Lavalle, fu Divinangelo e di Angelarosa Loricco”.

      “Anni?”

      “Quarantadue”.

      “Dove sei nato?”

      “A Castelli”.

      “Quando?”

      “Il 4 maggio 1872”.

      L’uomo parve al Giudice Istruttore Raffaele Ranieri, che lo interrogava, un buon uomo. Era basso, tarchiato, un po’ stempiato, ma non presentava quei tratti che solitamente aveva riscontrato nelle persone che nel corso della sua carriera aveva incontrato accusate di reati gravi quali l’omicidio. Eppure quel contadino apparentemente innocuo, che era ora seduto davanti a lui, era un omicida e aveva ucciso uno dei suoi migliori amici. Uno dei compiti del Giudice era quello di capire se l’omicidio era stato volontario o no e, se volontario, quale ne fosse stato il movente.

 

      L’uomo che il Giudice Istruttore Ranieri stava interrogando nel carcere di Teramo quella mattina del 14 ottobre 1914 era accusato di avere ucciso Antonio Natanni, di Angelo Maria, con un colpo di fucile sparato la sera del 14 settembre, in agro di Castelli. Secondo una prima ricostruzione, i due, Lavalle e Natanni, amici da molto tempo, si erano trovati insieme alla festa di Befaro, una frazione del comune di Castelli posta a poca distanza dal capoluogo. Dopo aver bevuto molto vino, usciti da una cantina si erano incamminati per tornare a casa, a Palombara. Ma prima Lavalle era voluto andare a riprendere il suo fucile, che aveva lasciato scarico in casa di Sabatino Amniconi. Natanni aveva chiesto all’amico perché volesse riprenderlo e gli aveva proposto di lasciarlo lì e di andare a riprenderlo l’indomani. Lavalle aveva riposto che lo voleva riprendere subito e gli aveva mostrato che era scarico, per rassicurarlo.

      Si erano incamminati verso Palombara e lungo la strada, poco dopo l’Ave Maria, si erano imbattuti in Florindo Di Blasio, il quale aveva notato che Lavale procedeva barcollando. Erano stati incontrati, mentre camminavano sotto braccio, sostenendosi a vicenda, ma ogni tanto barcollavano e cadendoo ai lati della strada, per poi rialzarsi, anche da Enrico D’Arcangelo e Stella Loricco. Arrivati nei pressi del mulino di Costantino Quaciari, Lavalle aveva invitato Natanni a precederlo. Dopo breve tratto, improvvisamente Natanni si era sentito colpire da una fucilata al braccio sinistro, era caduto a terra e aveva esclamato: «Oh, questo mi hai fatto! Questo mi meritavo dopo che ti ho accompagnato?»

      Lavalle, senza dire una parola, aveva raggiunto e superato l’amico ferito e si era dato alla fuga. I primi ad accorrere accanto al ferito erano stati il padrone del mulino, Costantino Quaciari, e sua nuora, Concetta Testardi, che avevano trasportato a braccia nel mulino Natanni e gli avevano prestato le prime cure. Natanni aveva detto ai suoi soccorritori che non si sapeva spiegare perché Lavalle gli avesse sparato una fucilata. Erano amici, procedevano insieme, discorrendo tranquillamente e senza questionare. La stessa cosa Natanni aveva detto ad altri il giorno successivo, quando verso le 7 era stato accompagnato dal commerciante Eugenio Arringa, di 37 anni, in casa della guardia Erminio Troisi, che a sua volta lo aveva condotto nello studio sanitario del medico dott. Eugenio Fuschi. Qui Natanni aveva riferito: “Camminavamo, io avanti e Lavalle dietro, e ad un certo momento mi sono sentito tirare addosso un colpo di fucile”.

      Mentre il dott. Fuschi procedeva alla medicazione del ferito, tutti quelli che si trovavano presenti, parlando, attribuivano il ferimento ad una disgrazia, senza che Natanni obiettasse nulla o accusasse l’amico di avergli sparato di proposito. Il dott. Fuschi aveva poi dichiarato che, essendo stata la medicazione assai dolorosa, non poteva escludere che il ferito non avesse obiettato nulla perché non in grado di capire quello che gli astanti dicevano e di controbattere. Il dott. Fuschi aveva però detto di essere rimasto sorpreso quando in seguito aveva saputo che Natanni aveva accusato Lavalle di avergli sparato di proposito.

      Che quest’ultima fosse la verità dei fatti era emerso dalle deposizioni del mugnaio Quaciari e di sua nuora. Questi avevano dichiarato di essersi trovati affacciati alla finestra proprio nel momento dello sparo e di aver visto Lavalle, che procedeva dietro Natanni, togliersi dalle spalle il fucile, puntarlo nella direzione del Natanni, che lo precedeva, e di aver sparato. Una versione del tutto diversa era quella che Lavalle aveva subito fornito. Il colpo gli era partito per accidente, mentre cadeva a terra, ubriaco. Questo era quanto avevano testimoniato che avesse loro detto Guido D’Angelo, Francesco Simonetti e Concetta Lavalle, quando il feritore li aveva incontrati poche ore dopo il fatto. Concetta Lavalle, cugina di Antonio, aveva riferito di aver incontrato il feritore quando già era notte. Lo aveva trovato che piangeva e gli aveva sentito dire che il colpo era partito per disgrazia.

      Il caso sul piano giudiziario si era fatto serio quando Natanni, ricoverato all’ospedale di Teramo, il 18 settembre era deceduto per sopraggiunta setticemia, resa ancora più grave, stando al referto autoptico, per lo shock subito dal ferito, «già infermo e molto poco resistente per gravosa ed intensa angoscia». Specifiche perizie avevano accertato che il colpo era stato esploso a bruciapelo, che il cane destro della doppietta scattava al mimino urto, che quello sinistro era alquanto storto all’infuori, ma non a causa di un urto, così come invece sembrava essere avvenuto per le ammaccature presenti sulla canna sinistra. La perizia aveva concluso che, delle due ipotesi possibili, nessuna poteva essere esclusa, né quella che il colpo fosse partito mentre il fucile veniva abbassato in direzione del Natanni né che fosse stato dovuto ad un urto del fucile sui sassi della strada.

      Il 12 ottobre 1914 lo stesso Giudice Ranieri, aveva spiccato mandato di cattura contro Antonio Lavalle, per omicidio, porto abusivo d’arma e senza licenza dell’autorità di P.S., mancato pagamento della tassa di concessione governativa. Interrogato in carcere, l’imputato negò di aver sparato volontariamente e insistette sulla versione di un colpo partito quando il fucile aveva sbattuto contro i sassi della strada nella sua caduta. Accusò Costantino Quaciari e sua nuora di aver mentito nell’accusarlo perché ce l’avevano con lui, in quanto non si serviva del suo mulino, e perché Costantino era nipote di Natanni. Accusò quest’ultimo di aver anche tentato di subornare dei testi, Enrico D’Arcangelo e Stella Loricco, convindendoli a dichiarare che il fatto era avvenuto in ora diversa da quella vera. Ma sia il mugnaio che la nuora, interrogati, insistettero nella loro versione. Spiegarono anche che la strada dove era avvenuto il fatto era larga, selciata, asciutta, alquanto in pendio. Quaciari negò anche di essere nipote di Natanni. Sua moglie era una lontana parente.

      Il 30 novembre 1914 il Giudice Ranieri sentì di nuovo nel carcere di Teramo Antonio Lavalle. Chiestogli se confermava le sue precedenti dichiarazioni, Lavalle rispose che le confermava totalmente, senza avere nulla da aggiungere. Poi il Giudice gli fece molte domande per accertare quanta consistenza avesse un’ipotesi possibile che era emersa nel corso dell’istruttoria, da una denuncia presentata il 14 ottobre dalla vedova dell’ucciso, Maria Stella Sacchetti. Questa aveva riferito che circa un anno prima Lavalle aveva affidato a suo marito un cane da caccia, che poi aveva chiesto indietro. Suo marito non aveva avuto alcuna difficoltà a restituirlo, ma il cane tornava sempre in casa sua, cosa per cui Lavalle se l’era presa molto, tanto che era stato sentito dire, minacciosamente: «Se stasera non mi ridà il cane…»

      Quando era stata sentita, la Sacchetti aveva indicato quali testi Domenico Dodi, Francesco Astolfi,  Eleonora Eusanio, Filomena De Luca. Quest’ultima, poche ore prima del ferimento, aveva sentito Lavalle dire a Natanni con voce alterata che il cane era suo.

      Il Giudice Ranieri chiese a Lavalle se confermava che tempo addietro aveva dato a Natanni un suo cane da caccia, riferì come erano andate le cose:

      “Natanni mi chiese il cane da caccia che io tenevo ed io, essendo cacciatore come lui, glielo diedi, perché non avevo rinnovato la licenza da caccia e non intendevo continuare a pagare inutilmente al Comune la tassa di lire 8,20.”

      “La vedova di Natanni” fece presente il Giudice “ha dichiarato che voi pregaste il marito di prendersi il cane e gli diceste che sareste andato a prenderlo ogni volta che foste andato a caccia”.

      “Questo è vero, ma non è vero che lo pregai di prendersi il cane. Anzi, fu lui che mi chiese il cane, e lo può confermare Francesco Simonetti, che si trovò presente”.

      “E’ vero che la mattina di Pasqua, essendo voi andato a casa di Sabatino Amicone, passaste e ripassaste davanti alla casa di Natanni, senza entrare, poiché era uscito di casa conducendo con sé il cane?”

      “Non posso dire né sì né no, perché non me lo ricordo. Ma posso dire che è difficile che è potuto succedere la mattina di Pasqua, perché nei giorni di festa non sono solito allontanarmi da casa”.

      “E’ vero che verso le due del pomeriggio del 14 settembre, stando voi nella cantina di Antonio Di Gabriele, entrò una certa Eleonora Eusanio e le chiedeste se Natanni era uscito di casa e, quando lei vi disse che non lo aveva visto, diceste con tono di minaccia: «Se stasera ritorna qua e non riporta il cane…»?”

      Lavalle rispose che non era assolutamente vero. Aggiunse che la Eusanio l’aveva vista solo un momento fuori dell’osteria, che quello che diceva non era vero, perché era una donna di facili costumi e aveva relazioni illecite con Natanni, e aveva anche tenuto a battesimo un suo figlio. Disse di non ricordare che Natanni fosse stato seguito in cantina dal cane, che poi lo aveva seguito anche quando era tornato a casa, come qualcuno aveva riferito. Dichiarò anche di non ricordare, giustificandosi dicendo che in quel momento era ubriaco, che, come pure qualcuno aveva riferito, passando la sera del 14 settembre davanti alla casa della maestra Filomena De Luca, avesse detto ad alta voce e con tono risentito: «Il cane è mio!» Non se lo ricordava, ma, tenne a precisare, era difficile che potesse averlo detto, perché aveva dato volentieri il suo cane a Natanni e non glielo aveva mai richiesto. Anzi, quando qualche volta il cane era tornato, per abitudine, a casa sua, lo aveva restituito a sua moglie e suo figlio Angelomaria. Se avesse rivoluto indietro il cane, non avrebbe avuto nemmeno bisogno di richiederlo. Anche il 14 settembre il cane era tornato a casa sua. Poteva testimoniarlo Eugenio Di Gennario, di Tobia, “soccio” di un certo don Giulio di Castel Castagna. C’era di più: due suoi compaesani, Donato Simonetti e Antonio Ciavardoni, gli avevano chiesto il cane e lui aveva risposto che non poteva accontentarlo perché lo aveva dato a Natanni.

      Come mai allora, gli chiese il Giudice Ranieri, la mattina di Pasqua Domenico Dori davanti alla Chiesa di Befaro aveva sentito alcune persone riferire a Natanni che quella mattina lui era andato in casa sua per uccidere il cane? Ma che non aveva trovato il cane, che aveva seguito Natanni uscito di casa?

      “Non me lo so spiegare” rispose Lavalle. “A me non è mai venuto in mente di uccidere il cane. E anche se lo volevo uccidere, non avevo bisogno di andare a casa di Natanni, perché il cane tornava così spesso da me, che si può dire che stava più a casa mia che a casa sua. Lo possono dire i miei vicini di casa, Nicola Iezzi e Giovanni Di Giovanni.

      “Natanni vi chiese mai se era vero che volevate uccidere il cane?” domandò il Giudice Ranieri.

      “Nossignore” rispose Lavalle. “Anzi, pochi giorni prima del 14 settembre, mi disse che se volevo il cane me lo poteva dare quando volevo, perché lui ne teneva altri due”.

      Il Giudice Ranieri tornò ad interrogare nuovamente Antonio Lavalle nel pomeriggio del 17 dicembre nel carcere di Teramo. Dopo aver confermato il contenuto della precedente deposizione, come gli venne chiesto di fare, rispondendo ad altre domande, ammise che era vero che, pur avendo dato il suo cane a Natanni, lo aveva promesso di darlo ad Antonio Ciavardoni, e che un giorno, essendo andato a Castelli seguito dal cane, aveva permesso a Ciavardoni di legarlo con una corda e tenerselo. Precisò, però, che non aveva ceduto il cane a Natanni definitivamente. Glielo aveva dato a tenere con riserva di riprenderselo se ne avesse avuto bisogno.

      “E’ vero” chiese ancora il Giudice Ranieri “che da qualche anno e fino a poco prima del 14 settembre vi siete più volte lagnato che Natanni, accarezzando il cane, lo faceva stare quasi sempre a casa sua? Di modo che, se ne avevate bisogno, molto raramente ve ne potevate servire?”

      “Non è vero” rispose Lavalle. “Io mi lamentai con Giovanni Di Giovanni del fatto che Natanni al cane non gli dava a mangiare abbastanza, di modo che il cane se ne veniva a mangiare a casa mia e poi se ne tornava a casa sua”.

      Il 5 gennaio 1915 il difensore di Lavalle, avv. Arturo Massignani, chiese che fossero sentiti altri testi e che in particolare venisse accertato se era vero che la vedova di Natanni fosse stata udita dire, in presenza di Giuseppe Pardi ed Ercole Di Sante, che ad aizzarla contro gli imputati erano il mugnaio Quaciari e il padrone Massimo Altitonante. Ma la circostanza venne esclusa dai due testi, appositamente sentiti. Sempre su richiesta del difensore dell’imputato, venne accertato dal maresciallo dei carabinieri Tato che la distanza tra il luogo del ferimento e il mulino era di 46 metri e mezzo, pertanto dalla finestra del Quaciari si poteva vedere ed udire tutto ciò che accadeva e si diceva nel luogo dove era accaduto il fatto.

      Il 3 marzo 1915 il Pubblico Ministero Giovanni Mancini, esaminati gli atti istruttori, chiese che il Giudice Istruttore mutasse il reato contestato ad Antonio Lavalle, derubricandolo da omicidio volontario ad omicidio colposo. Chiese il rinvio a giudizio per questa nuova e diversa contestazione di reato, dalla quale conseguiva come effetto la richiesta di immediata scarcerazione. Il provvedimento venne notificato al difensore dell’imputato, l’avv. Arturo Massignani. Ma l’accusa restò quella di omicidio volontario e con questa imputazione il 30 aprile Antonio Lavalle venne rinviato alla Corte d’Assise di Teramo dalla Sezione d’Accusa della Corte d’Appello dell’Aquila (Presidente Eustachio Calcagni, consiglieri Domenico Babbieri e Luigi Sanna). Contro questa decisione, la difesa dell’imputato presentò ricorso in Cassazione il 7 maggio 1915. Il successivo 19 giugno il Procuratore del Re presso la Corte di Cassazione chiese che il ricorso fosse dichiarato inammissibile, mentre il difensore dell’imputato, l’avv. Giovanni Persico, del foro di Roma, ne chiese l’accoglimento. Il 6 luglio la Cassazione si pronunciò per l’inammissibilità.

      Il processo a carico di Antonio Lavalle, imputato di omicidio volontario, venne celebrato nell’aula della Corte d’Assise di Teramo il 4 settembre 1915. Presiedeva la Corte il cav. Domenico Mastrostefano. La sentenza si concluse con il riconoscimento del delitto di omicidio colposo, la condanna a mesi 7 e giorni 15 di reclusione, il pagamento di 300 lire di multa per il porto abusivo di arma. Fu dichiarato estinto per amnistia quello di mancato pagamento della tassa governativa.

 

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