Omicidio a Fonterosso

seconda parte

     Nel corso dell’istruttoria per l’omicidio di Fonte Rosso furono ascoltati diversi testimoni, tra i quali Carlo Colangelo, Raffaele Pistilli, Domenico Polito e Alessandro Giorgini, che avevano trascorso la serata di domenica 1° gennaio 1899 insieme con Giacomo Cinaglia e Vincenzo Pultrone. Colangelo dichiarò al Pretore di Giulianova, Francesco Cantaldi, che, uscendo dalla casa di Cinaglia, dove si erano trattenuti a bere per qualche tempo insieme con altri amici, Cinaglia e Pultrone si erano mostrati non del tutto riappacificati, tanto che il secondo gli aveva detto: “Debbo lasciare la compagnia, altrimenti finirà male!” Domenico Polito dichiarò di essere rimasto insieme con Cinaglia fino a verso le ore 21. Era stato proprio lui, Polito, ad accorgersi di essere seguiti e spiati da Pultrone. Era poi rincasato, lasciando solo il Cinaglia, che a sua svolta era diretto verso casa sua.

     Pultrone negò la circostanza, ripetendo più volte che non aveva né seguito né spiato Polito e Cinaglia e che subito dopo aver lasciato la compagnia era tornato a casa e si era messo a letto, svegliandosi solo al mattino, quando aveva saputo che Cinaglia era stato trovato morto ammazzato. Aggiunse che era tornato a casa proprio insieme con Colangelo, che aveva invitato a dormire a casa sua. Nel corso della notte non si era levato dal letto e non era uscito di casa. Avrebbe potuto confermarlo lo stesso Colangelo. Non negò di avere avuto la sera del 30 dicembre una lite con Cinaglia, non negò di avergli sottratto la pistola ma ribadì più volte di avergliela ridata e che in seguito, la sera del 1° gennaio, si era riappacificato con lui. Ammise anche di essersi armato di fucile e di essersi appostato sotto la casa di Cinaglia, il 30 dicembre, ritornando il suo ritorno, che non era avvenuto. Precisò però che si era armato di fucile solo perché aveva paura dei cani che stavano a casa di Cinaglia.

     Colangelo confermò di aver dormito a casa di Pultrone, su suo invito, ma gli inquirenti accertarono che aveva dormito in una stanzetta del tutto indipendente da quella dove aveva dormito Pultrone, il quale avrebbe potuto benissimo levarsi dal letto e uscire di casa senza che Colangelo se ne accorgesse. Tra l’altro la casa di Pultrone si trovava a poca distanza dal luogo in cui era stato rinvenuto il cadavere di Cinaglia, pertanto l’indiziato aveva potuto benissimo levarsi dal letto, senza farsi notare dal suo ospite, recarsi sul luogo del delitto, sparare alla sua vittima e tornare a casa, rimettendosi a letto, in pochissimo tempo. Restavano, pertanto, molti indizi a suo carico, anche per la conferma, avuta dallo stesso Pultrone, che il fucile rinvenuto e sequestrato in casa sua, aveva effettivamente sparato un colpo il 1° gennaio. Ma a sparare, si era difeso il giovane, era stato quasi certamente suo zio, andando a caccia, e lo zio confermò la circostanza, senza poter spiegare però come mai, pur avendo un suo fucile, per andare a caccia avesse usato il suo. Intanto la voce pubblica continuava sempre di più ad indicare Pultrone quale autore dell’omicidio.

     Dal successivo lavoro inquirente del Giudice Istruttore Raffaele Mastrocinque quasi tutte le circostanze accertate dal Pretore Cantaldi risultarono confermate. Fu anche documentato che Pultrone aveva detto al maresciallo dei carabinieri Antonio Simonetti al momento dell’arresto: “Maresciallo, mi vuoi mandare in una tomba”. Fu anche definitivamente accertata la presenza di quattro macchie si sangue sulla canna destra del fucile sequestrato in casa Pultrone, tra sotto e una sopra. Era ipotizzabile che le macchie si fossero prodotte nel momento in cui era partito il colpo che aveva attinto ed ucciso il povero Cinaglia, sparato a brevissima distanza. Fu data anche molta importanza al fatto che, portato sul luogo del delitto, alla vista del cadavere Pultrone era impallidito visibilmente e per poco non si era accasciato a terra. Tutti questi elementi vennero considerati indizi di estrema importanza.

     Il 13 febbraio 1899 la Camera di Consiglio del Tribunale di Teramo ordinò la trasmissione degli atti al Procuratore Generale presso la  Corte d’Appello dell’Aquila per l’ulteriore procedimento a carico di Vincenzo Pultrone, nato a Mosciano il 6 aprile 1876, figlio di Angelo e di Filomena Santini. al quale veniva contestato, in base agli art. 364 e 366 del vigente codice penale, il reato di omicidio premeditato di competenza della Corte D’Assise e quello di porto d’armi fuori della propria abitazione. Il successivo 10 marzo il Procuratore del Re Pasquale Semola chiese alla Sezione d’Accusa di pronunciare la sentenza di accusa, scrivendo tra l’altro che il sospettato era “una di quelle nature che non concepiscono se non l’odio verso i loro simili, aveva rancore da parecchio tempo contro Giacomo Cinaglia per questioni di gioco”. L’episodio avvenuto nella bettola di Antonio Taddei aveva scatenato il suo odio e la successiva pacificazione non aveva fatto cessare il suo odio per la vittima ed era rimasto fermo nel suo animo il proposito di prendersi una vendetta e se l’era presa, appostandosi lungo il viale che Cinaglia stava percorrendo per tornare a casa e sparandogli a bruciapelo da distanza tanto ravvicinata da non poter assolutamente sbagliare la mira. La Corte d’Accusa si pronunciò il 23 marzo, fece proprie tute le argomentazioni del Procuratore del Re Pasquale Semola, riconoscendo sia la volontà omicida che la premeditazione, definite del tutto evidenti. Dava evidenza di prova a tutti gli indizi, dei quali i più gravi si riteneva che fossero le macchie di sangue sul fucile e la natura identica dei pallini di piombo trovati sul cadavere e di quelli trovati nelle cartucce inesplosa infilata canne del fucile sequestrato in casa Pultrone. Inoltre vari testi avevano deposto sia sull’odio dell’accusato per la vittima sia sulle minacce del primo al secondo. Accogliendo la richiesta del Sostituto Procuratore Generale Michele Lanzara, la Sezione di Accusa, presieduta dal Cav. Carlo Santi, rinviò Vincenzo Pultrone al giudizio della Corte d’Assise di Teramo.

     In vista del processo la madre dell’ucciso, Enrichetta Lupinetti, di anni 57, si costituì parte civile e scelse quale proprio rappresentante legale l’avvocato Francesco Moruzzi.

         Il processo in Corte d’Assise ebbe inizio mercoledì 19 aprile 1899. La Corte era presieduta dal Presidente del Tribunale di Teramo Giovanni Palmieri. Pultrone tornò a proclamarsi innocente e tutti i testi confermarono nelle loro deposizioni quanto dichiarato in precedenza. Il 30enne Stefano Carinelli, un calzolaio che abitava a poca distanza dal luogo del delitto, riferì di aver distintamente udito un colpo di fucile quella sera, di essersi affacciato alla finestra ma di non essere uscito di casa per accertarsi di che cosa era accaduto. Solo il mattino successivo aveva saputo che era stato trovato lungo il viale che portava in direzione del villino Rozzi era stato trovato il cadavere di Giacomo Cinaglia.

Nel corso del processo sull’omicidio di Fonterosso, che si svolse mercoledì 19 aprile 1899, quasi tutti i testi confermarono quanto avevano dichiarato in precedenza, nel corso dell’istruttoria. Venne ricostruita la vicenda di un’antica amicizia tra Giacomo Cinaglia e Vincenzo Pultrone, guastatasi quando il primo aveva sottratto una rivoltella al secondo. Anche se la pistola gli era stata poi restituita, Pultrone aveva covato del malanimo, anche dopo una bevuta pacificatrice. Ernesto Gaudini dichiarò che quando Cinaglia aveva invitato a quella bevuta tutto il gruppo di amici, Pultrone era parso recalcitrante e alla fine era andato anche lui, ma seguendo gli altri riluttante, a qualche passo di distanza. Antonio Taddei testimoniò sulla lite che c’era stata tra Cinaglia e Pultrone nella sua bettola. Quando Cinaglia aveva sottratto la rivoltella a Pultrone, quest’ultimo era parso assai irritato e aveva reagito male. Aveva detto: “Porca M…., adesso ce l’ha da fare con me!” Gli aveva chiesto un fucile, con il quale intendeva inseguire Cinaglia e, non avendolo ottenuto, era andato a casa sua a prenderlo. Il maresciallo Antonio Simonelli depose che, quando aveva contestato all’imputato la presenza di alcune macchie di sangue sulle canne del fucile sequestrato in casa sua, Pultrone era impallidito e aveva farfugliato qualche giustificazione assai poco convincente. Maddalena Macrini confermò di essere stata la prima a scoprire il cadavere di Cinaglia, la mattina del 2 gennaio. Si era alzata presto, come al solito, per attingere l’acqua alla fonte, e aveva visto il corpo in mezzo alla strada, in un lago di sangue. Aveva riconosciuto subito che il morto era Giacomo Cinaglia. Pur abitando molto vicino al luogo dove si era imbattuto nel cadavere, disse di non aver sentito nessun colpo di arma da fuoco la sera precedente. Anche altri testi, che abitavano nelle vicinanze, tra cui Giuseppe Sebastiani, dichiararono di non aver sentito nessuno sparo.

     Il difensore di Pultrone, l’avv. Gustavo De Marco, chiese l’escussione di un buon numero di testi a discarico. Carmine Di Matteo, impiegato ferroviario presso la stazione di Mosciano, e Luigi Parere, proprietario, riferirono di aver incontrato Pultrone che in compagnia di Colangelo stava rincasando. Domenico Polito confermò che, subito dopo aver lasciato Cinaglia, diretto verso casa sua, si era accorto che Pultrone lo seguiva senza farsi scorgere, ma non aveva immaginato che intendesse tendergli un agguato e sparargli. Ferdinando Mattiucci, mugnaio, e Luigi Reginelli, proprietario, riferirono che Pultrone e Cinaglia erano in ottimi rapporti di amicizia. Il primo aggiunse che non molto tempo prima suo figlio aveva presentato una querela contro Cinaglia, il quale aveva chiesto proprio l’intermediazione di Pultrone, che sapeva amico del querelante, per convincere quest’ultimo a ritirarla. Ferdinando Di Marco e Biagio Iampieri, entrambi contadini, dichiararono che Cinaglia era sempre “provocante e attaccabrighe”, mentre Arcangelo Censoni e Antonio Piccinini, proprietari, dichiararono che Pultrone era mite e tranquillo e che secondo loro era impossibile che si fosse macchiato di un reato così grave come l’omicidio.

     Come spesso avviene, si formarono due partiti, contrapposti. Il primo sosteneva che ad uccidere Cinaglia non poteva essere stato che Pultrone, per vendetta; il secondo riteneva che Pultrone fosse innocente. Che motivo avrebbe avuto di prendersi una vendetta tardiva, dopo aver riavuto la rivoltella? Non mancava chi pensava, ed esplicitava apertamente il proprio pensiero, che a commettere l’omicidio fosse stato qualcuno che aveva approfittato di quella lite per tentare di deviare da sé i sospetti, facendoli ricadere tutti su Pultrone.

     Pasquale e Giuseppe Cinaglia, fratelli della vittima, confermarono che Pultrone si era recato a casa loro armato di fucile e con atteggiamento minaccioso. “Non faceva altro che bestemmiare e minacciare” dichiararono, aggiungendo che era rimasto sotto casa ad aspettare che tornasse Giacomo con il fucile fino alle sei del pomeriggio. Poi, finalmente, se n’era andato. Quando Giacomo era tornato, gli era stato riferito di quella lunga minacciosa attesa e lui aveva ammesso con i familiari di aver preso la rivoltella di Pultrone. Aveva promesso di restituirgliela al più presto, cosa che aveva fatto il giorno successivo.

     Il Pubblico Ministero, Pasquale Semola, riepilogò tutti gli indizi a carico di Pultrone: il fucile rinvenuto a casa sua, che presentava sulle canne delle macchie di sangue e delle cortecce d’albero compatibili con i pioppi che si trovavano accanto al luogo dove era stato rinvenuto il cadavere, il movente costituito da un desiderio di vendetta che non si era dissolto anche dopo aver riavuto la rivoltella che gli era stata sottratta. Si trattava di un omicidio intenzionale e premeditato. Pultrone si era fatto riaccompagnare a casa da Colangelo, aveva invitato quest’ultimo a dormire in casa sua proprio per crearsi un alibi, per sostenere che non avrebbe potuto uscire di casa senza essere visto dall’amico. Ma Colangelo aveva dormito in una stanza isolata dal fabbricato dove si trovava l’abitazione di Pultrone, che si era messo a letto in una camera del primo piano, ma poco dopo si era levato e si era recato sulla via che Cinaglia avrebbe dovuto percorrere per rincasare. Aveva coperto la distanza in poco meno di mezzora, come era stato accertato fosse possibile. Quando lo aveva visto aveva sparato e poi era tornato nel suo letto. Colangelo ammise che era possibile che Pultrone di fosse levato e fosse uscito e poi rientrato senza che lui se ne accorgesse. La discussione tra accusa e difesa si accese proprio su questo punto e l’avv. De Marco nella sua arringa parlò di una inconsistenza di prove, avendo lo stesso Pubblico Ministero potuto parlare solo di indizi, ma nessuno di quegli indizi costituiva una prova. L’avv. Moruzzi, che rappresentava la madre della vittima, Enrichetta Lupinetti, costituitasi parte civile, chiese che si riconoscesse la piena colpevolezza dell’imputato, così come fece la pubblica accusa. La difesa chiese la piena assoluzione per mancanza di prove.  La permanenza in camera di consiglio della giuria non fu molto lunga e al ritorno in aula il presidente della Corte d’Assise Giovanni Palmieri chiese se l’imputato fosse stato riconosciuto colpevole o innocente. La risposta risultò sorprendente per tutti, perché non v’era nessuno nell’aula, forse nemmeno l’avvocato difensore e l’imputato, che si attendesse una piena assoluzione, che invece fu proclamata, sia pure solo dalla maggioranza dei giurati.

     Vincenzo Pultrone, di Angelo, di anni 29, contadino di Giulianova, fu dichiarato assolto dall’accusa di omicidio volontario in persona di Giacomo Cinaglia e fu ordinata la sua rimessa in libertà. Fu assolto anche dall’accusa di porto d’arma da fuoco fuori dalla propria abitazione e il fucile che era stato sequestrato nella sua abitazione gli fu restituito, “non essendo stato provato che si trattasse dell’arma del delitto Cinaglia”.      

     Avendo la Corte di Assise omesso di provvedere ai corpi di reato appartenenti all’ucciso: un orologio d’argento, un portamonete, una pipa, un pugno di tabacco, tre fazzoletti e un cappello, essi vennero restituiti alla famiglia Cinaglia solo tre anni dopo, l’11 novembre 1902.