Dramma della gelosia

Nel pomeriggio di venerdì 16 maggio 1902 si sparse improvvisamente per tutta Teramo la notizia di un tragico fatto di sangue, avvenuto in via del Leone e sul luogo accorse una grande quantità di gente, richiamata dalle voci che si susseguivano e dalla curiosità di accertare se quanto si diceva fosse vero. Un giovane, dopo aver sparato ad una giovane per la quale spasimava, si era ucciso con la stessa rivoltella, esplodendosi un colpo alla gola che gli aveva reciso la carotide. Accorsero anche i cronisti, ai quali, tuttavia fu impedito dalla guardia di città Bibbona di infilarsi dentro il portone della casa dove il dramma si era consumato, al pianerottolo del primo piano, proprio davanti alla abitazione del prof. Balestra, insegnante di fisica del Liceo. Le notizie più dettagliate sull’accaduto furono raccolte stando in strada, tra la folla, ma con molta fatica per discernere tra quanto sembrava una narrazione inverosimile e quanto non poteva esserlo assolutamente. Alla fine, tuttavia fu possibile avere una ricostruzione dei fatti più attendibile e plausibile.

     Un giovane calzolaio, che si chiamava Guglielmo Marcattili, aveva aperto da poco una sua bottega in un locale di proprietà dell’avv. Manetta, proprio di fronte alla casa della famiglia Marinucci in cui abitava il prof. Balestra. Questi aveva in casa come domestica una giovane, bionda e avvenente, che si chiamava Venere Colombo, della quale Marcattili si era invaghito e con la quale aveva preso ad amoreggiare. Al giovane, però, non era sfuggita l’attenzione che rivolgevano alla stessa fanciulla, altri spasimanti, dei quali era assai geloso, sospettando che qualcuno di loro fosse riuscito a conquistare qualcosa in più del cuore di lei, davvero avvenente e conscia della sua bionda bellezza. Dopo un mese Guglielmo aveva parlato con il prof. Balestra e gli aveva chiesto la mano della sua domestica, che gli era stata accordata. Ma il tarlo della gelosia lo rodeva, facendogli sospettare un tradimento di cui gli sembrò un giorno di avere le prove. Dopo aver fatto una violenta scenata alla bella Venere, Guglielmo si era recato a casa di un giovane studente di cui sospettava che avesse una tresca con la giovane e gli chiese, con aria tranquilla, di dirgli in amicizia che genere di rapporto lui intrattenesse con la domestica del prof. Balestra, con la quale aveva confessato di amoreggiare. Lo studente aveva risposto alquanto vagamente, consigliandogli però di non sposare quella giovane. Guglielmo aveva ricavato l’impressione che quel consiglio fosse un’ammissione e decise di comperare una rivoltella calibro 9. Essendo, però usata, volle accertarsi che l’arma fosse in ottimo stato, perfettamente funzionante e precisa, e si rivolse ad un suo amico fabbro ferraio. Questi gli suggerì di far esaminare la rivoltella dall’armiere Berardo Lupi, che però era amico della sua famiglia, perciò Guglielmo decise di rivolgersi ad un vecchio cacciatore, soprannominato “Zellitte”, che abitava fuori Porta Vezzola (il suo vero nome era Ignazio Allulli). Si diresse verso la sua casa, da cui usciva poco essendo impedito a camminare a causa di un colpo d’arma da fuoco e si trovò a passare in via del Leone, proprio davanti alla casa del prof. Balestra. Nell’udire il chiasso dei giovanissimi figli del professore su per le scale, aveva immaginato che a sorvegliarli ci fosse Venere e, mutato improvvisamente parere, era entrato nel portone si era portato sul pianerottolo del primo piano e aveva chiamato Venere che si trovava sul pianerottolo di sopra, invitandola a scendere.

     Su quanto era avvenuto in seguito le voci divergevano. Qualcuno ipotizzava che lui, dopo averle fatto un’altra scenata di gelosia, le avesse richiesto le lettere che le aveva scritto, come consuetudine tra due innamorati che rompono la relazione. Infatti erano state trovate alcune lettere d’amore scritte a lei nelle sue tasche, quando il giudice istruttore aveva fatto frugare il suo cadavere, steso lungo le scale.

Per una ricostruzione dettagliata del momento più drammatico del fatto di cronaca di via del Leone, si dovette attendere che fosse interrogata la domestica, la quale riferì che Guglielmo aveva estratto la pistola, le aveva urlato: “Né mia né di altri!” e le aveva sparato un colpo diretto alla testa. Lei istintivamente si era fatta scudo con il braccio, rimanendo ferita leggermente tra il gomito e l’avambraccio. Spaventata, era svenuta ed era caduta lungo le scale. Quel che era accaduto dopo lo si poté ricostruire sulla base di congetture e testimonianze. Guglielmo doveva aver creduto di aver ucciso Venere e deciso di rivolgere l’arma contro se stesso. Infatti era stato sentito gridare: “Ed ora a me!” e subito dopo si era sentito un altro colpo di rivoltella. Si era puntato l’arma alla gola e, avendo spezzato la carotide, era morto quasi subito. Quando era rinvenuta, Venere lo aveva visto ormai morto, riverso  sui gradini della scalinata. Qui era stato trovato da chi era sopraggiunto subito dopo e da suo padre, accorso dopo essere stato avvertito dell’accaduto, rimasto impietrito accanto al cadavere del figlio prima di essere riportato a casa da alcuni suoi amici sostenuto e spinto come una cosa inanimata.

     Nei giorni successivi il povero padre fu assai commiserato, saputi i grandi sacrifici anche economici da lui fatti per far fronte ad una grave malattia del figlio, sottoposto a Bologna a ben due operazioni chirurgiche per salvargli la vita. Si disse, anzi, che avrebbe dovuto subirne una terza e che proprio questa evenienza, una volta saputa, aveva indotto Venere Colombo a troncare la relazione. Da qui il sorgere in Guglielmo della tragica determinazione. L’ipotesi poneva l’accaduto sotto una diversa luce e sembrava smentire quella della gelosia come movente, tanto più che s’erano trovate in tasca al giovane suicida due lettere, una diretta a Peppino Paradisi, un suo affezionatissimo amico, e l’altra ad un sacerdote, don Pasquale Pistocchi.

     Il tragico fatto di sangue fece a Teramo grande impressione, anche perché seguiva di poco più di un mese altri due fatti avvenuti il primo a Cermignano, un altro suicidio, e il secondo a Teramo, un tentato suicidio. “Pare proprio che si tratti di un contagio morale” annotava il cronista del “Corriere Abruzzese”.