Ah quelle  nozze di... Diamante

(seconda parte)

 

Quando Camillo Palmarini tornò insieme con i carabinieri, vide che si era radunata davanti alla casa una gran folla. C’erano quasi tutti i vicini ed anche gente che abitava più lontano. Tutti dicevano che i sospetti non potevano cadere su Erasmo Tulli, sia perché erano note le continue sue liti con la vittima, sia perché risultava ancora irreperibile. Dopo aver sparato al figliastro, doveva esseri dato alla macchia, per sfuggire alla giustizia. Il medico, accorso anche lui, certificò che la lesione mortale, che aveva completamente devastato il volto della vittima e aveva spappolato parte del cervello, aveva come epicentro la zona temporo-zigomatica. Dalla successiva autopsia risultò che la ferita era stata prodotta da un’arma da fuoco caricata a pallini ed esplosa a bruciapelo. Si era determinata un’emorragia imponentissima, per la distruzione di tutta la rete arteriosa della regione colpita, che aveva interessato la carotide, e di tutti gli organi importanti contenuti nella rocca petrosa, e per lo spappolamento di una parte dell’encefalo. Nel pomeriggio Erasmo Tulli fu arrestato e ammise le sue responsabilità, dichiarando di aver ucciso il figliastro per motivi di interesse. Ricostruì così il momento dell’omicidio:

     Ho fatto finta che tutto fosse finito dopo la lite, ho aspettato che Antonio fosse andato a letto perché a petto a petto sentivo di non potergliela fare. Mentre dormiva profondamente insieme con la moglie e il figlio, alla luce della luna sono entrato piano piano nella sua camera, ho preso la doppietta, che sapevo teneva carica appesa al muro di fronte al letto, mi sono avvicinato e, per non colpire la moglie e il figlio, ho accostato le canne alla testa del mio figliastro e ho lasciato partire il colpo. Vedendo che nessuno si era svegliato, mi sono allontanato subito da casa, non con l’intenzione di sottrarmi alle ricerche della giustizia, ma per regolarmi secondo le esigenze. Prima di uscire di casa, ho riappeso la doppietta alla parete, nello stesso posto dove si trovava prima.

     Angelarosa Ippoliti, interrogata dal Giudice Istruttore Francesco Saccardo la mattina del 4 novembre 1909, riferì che suo fratello Antonio la sera del 3 novembre  era andato a dormire insieme con il suo bambino prima di lei, che si era coricata verso le 21, contemporaneamente a sua madre Diamante e a sua cognata, Costanza Lamone.  Il suo patrigno, Erasmo Tulli, invitato dalla moglie a coricarsi, non lo aveva fatto, ma era uscito sul pianerottolo. Al mattino lei era scesa nella stalla e poco dopo aveva sentito sua cognata che gridava: “Oh Dio! E’ morto mio marito!”. 

     Era accorsa e aveva trovato suo fratello morto, steso sul letto, tutto insanguinato. Il fucile di suo fratello era appeso al solito posto, dove solitamente veniva lasciato carico. Durante la notte, dichiarò Camillo Palmarini, non aveva sentito alcuna detonazione, ma non aveva fatto altro che lampeggiare e tuonare. Un mese prima, riferì, l’omicida gli aveva detto: “Se mi riesce, la roba non la faccio essere né per me né per lui.” La sera prima c’era stata un’altra lite e passando aveva sentito che Ippoliti diceva a Erasmo che era pronto a dare al patrigno ciò che gli spettava. La madre, Diamante, invece, esclamava: “Dio, mio, Dio mio, fatemi morire!”. Disse che Diamante parteggiava più per il marito che per il figlio. Maria Giuseppa Di Clemente, 32enne, moglie di Palmarini, confermò la deposizione del marito. Anche lei aveva notato che, mentre gli altri familiari piangevano e si disperavano per l’uccisione di Antonio, Diamante scopava per terra con contegno indifferente. Quando avevano detto a Diamante che suo figlio era stato ucciso con una schioppettata, lei si era messa a tremare e aveva esclamato: “Dio mio, povero figlio mio!”. Anche lei aveva notato il fucile, a due canne, appeso ad un muro della stanza, aveva un cane abbassato e l’altro alzato. Anche un altro vicino, Raffaele Chiappini, aveva notato, quando era accorso, il fucile appeso al muro e ricordava che mentre la sorella e la moglie dell’ucciso piangevano e si disperavano, sua madre Diamante sembrava indifferente. Sia la moglie che la sorella amavano molto l’ucciso, dichiarò, quindi lei si sentiva di escludere che avessero preso parte all’omicidio.

     Le deposizioni degli altri vicini, il 50enne Antonio D’Orazio, il 63enne Gaetano Di Sante, il 39enne Vincenzo Di Sante, il 48enne Pasquale Di Sante, risultarono conformi e concordi nel dire che per tutta la notte aveva lampeggiato e tuonato, quindi nessuno avrebbe potuto udire un colpo di fucile. Ma com’era possibile che nessuno dei familiari, che abitavano nella stessa casa, l’avesse sentito e come poteva non averlo sentito la moglie, che pure era coricata al suo fianco, nello stesso letto?

     La Sezione di Accusa della Corte di Appello dell’Aquila,nel rinviare a giudizio Erasmo Tulli, per omicidio premeditato, il 17 febbraio 1910, si poneva l’interrogativo, ma mancava di dare una risposta, limitandosi a dire che il colpo era stato esploso tra le dieci di sera e l’una di notte e che la morte di Antonio Ippoliti era stata constatata ai suoi familiari solo al mattino.

     L’imputato fu interrogato il 13 marzo 1910 nel carcere giudiziario di Teramo dal Presidente della Corte di Assise di Teramo, cav. Nicolangelo De Simone e si limitò a confermare le sue precedenti deposizioni. Il processo a suo carico ebbe inizio mercoledì 20 luglio 1910. La Corte d‘Assise che lo giudicò era presieduta dal Cav. Giuseppe Bruni; l’accusa era rappresentata dal Procuratore del Re Andrea Putaturo. Il suo difensore d’ufficio fu l’avv. Francesco Sagaria (subentrato all’avv. Arturo Massignani, designato in un primo momento), il quale chiese la citazione del dottor Raffaele Roscioli, direttore del Manicomio di Teramo, per poter certificare che l’imputato nel momento del fatto non era in pieno possesso delle facoltà mentali. Non avendola ottenuta, reiterò la stessa richiesta in aula nel corso della prima udienza, ma il presidente, ritiratosi in camera di consiglio per deliberare, rigettò la richiesta, mettendo in evidenza come essa fosse stata depositata in cancelleria soltanto due giorni prima del processo, senza che peraltro emergesse dagli atti processuali alcun elemento che giustificasse l’opportunità di una perizia psichiatrica. L’avvocato Massignani elevò rispettosa protesta contro la decisione del Presidente, dicendosi costretto ad abbandonare la difesa dell’imputato, della quale era stato incaricato d’ufficio solo due giorni, senza aver potuto avere il tempo di avere dall’imputato o dai suoi familiari i necessari chiarimenti sullo stato di stordimento nel quale lo aveva trovato in carcere quando era andato a trovarlo. Sarebbe rimasto al suo posto come difensore d’ufficio, aggiunse, solo se il Presidente glielo avesse imposto per deferenza verso di lui. Avendogli chiesto il Presidente di rimanere in aula, l’avvocato Sagaria restò al suo posto.

     Sia la deposizione dell’imputato che quelle dei testi non portarono nessun nuovo elemento. La difesa sollevò qualche altro incidente, soprattutto in merito alla deposizione di Angelarosa Ippoliti, sorella dell’ucciso e figliastra dell’imputato. Il Presidente escluse che potesse essere chiamata a deporre, per essere affine in linea retta con l’imputato, ma la difesa insistette nella richiesta di poterla ammettere a deporre. Con propria ordinanza il Presidente ribadì che la legge non consentiva la sua deposizione e la licenziò.  Alcuni testi deposero che l’imputato qualche tempo prima aveva riportato una caduta dalla quale aveva residuato un certo stordimento, che lo induceva, parlando dell’affare della vendita, a ripetere sempre le stesse cose. Altri deposero che dopo la caduta si era rimesso ed era tornato ad essere quello di prima.

     La seconda udienza del processo si svolse il 21 luglio 1910 e la difesa sollevò un altro incidente, dichiarando irrinunciabile la deposizione del teste Orazio Tattoni, che risultava però in viaggio di nozze e pertanto non aveva ricevuto la citazione nelle modalità previste dalla legge. Il presidente respinse la richiesta della difesa, ritenendo superflua la deposizione del teste, essendo state accertate mediante altri testi le circostanze sulle quali avrebbe dovuto riferire. Il P.M. aveva espresso la sua contrarietà alla richiesta della difesa, il cui unico scopo, aveva detto, era quello di sottrarre l’imputato ai suoi attuali giudici ottenendo il rinvio del processo nella speranza di poter ottenere in seguito una perizia psichiatrica. Chiuso il dibattimento, il P.M. svolse la sua accusa, negando anche le circostanze attenuanti. Il difensore chiese invece di poter prospettare ai giurati anche il quesito della provocazione oltre all’esclusione della premeditazione e il riconoscimento dello stato di infermità di mente.  Nella sua replica la pubblica accusa si dichiarò contrario a tutte le richieste della difesa. Sottoposti i quesiti ai giurati, questi si ritirarono in camera di consiglio. Al loro ritorno in aula, il loro presidente rispose ai quesiti. A maggioranza era stata negata l’infermità di mente totale ed era stata concessa quella parziale. Erano state altresì riconosciute le circostanze attenuanti.

     Sulla base di questo giudizio, Erasmo Tulli fu condannato a 16 anni e 8 mesi di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, all’interdetto legale durante l’espiazione della pena e al risarcimento della parte lesa.