Ah quelle  nozze di... Diamante

(prima parte)

 

Il grande cruccio di Angelarosa Di Pietro, da quando era rimasta vedova, era suo figlio Domenico, che era nato storpio e non riusciva a trovare moglie. Prima di morire, avrebbe tanto voluto vederlo sposato, gli serviva una moglie che lo accudisse e gli volesse bene. Per questo fece sapere in giro che sarebbe stata disposta a vendere le terre di sua proprietà alla donna che avesse accettato di sposare suo figlio. In tutto il circondario di Bellante non se ne trovava una che fosse disposta, ma alla fine fu trovata. Si chiamava Diamante. L’atto di vendita fu stipulato e il matrimonio venne celebrato. Ora Angelarosa poteva morire serena e non passò molto tempo dal giorno delle nozze tra Domenico Ippoliti e Diamante che la povera vecchia morì. Il matrimonio non fu tra i più felici e i due sposi non andarono sempre d’accordo, ma ebbero due figli, Antonio e Angelarosa, che furono cresciuti se non proprio nell’agiatezza senza eccessive preoccupazioni finanziare, sfuggendo alla sorte comune alle altre famiglie di Sant’Angelo a Marano. Ma Domenico morì, non molto tempo dopo sua madre Angelarosa, e lasciò Diamante vedova, con due figli da mantenere, per cui la donna  pensò bene di risposarsi.

      Il suo secondo marito, Erasmo Tulli, era vedovo e aveva un figlio, di nome Domenico. Erasmo trattò i figli di primo letto di Diamante come fossero suoi e ci fu una certa armonia in famiglia fino a quando suo figlio Domenico non si mise su una cattiva strada e il figliastro Antonio, dopo che si sposò con Costanza Lamone, cominciò ad avanzare una pretesa che costituì motivo di liti continue e contrasti.

         Antonio non accettava che i terreni venduti a sua madre da sua nonna finissero in eredità anche a Domenico, il figlio del suo patrigno, perciò pretendeva che la vendita fosse riconosciuta nulla o fittizia e toccassero in eredità solo a lui e alla sorella Angelarosa. Erasmo, il patrigno, era di parere diverso e Diamante, per mantenere armonia in famiglia non lo contrastava, cercando di convincere il figlio a cambiare opinione. Per il momento i contrasti cessarono e sia Domenico, il figlio di primo letto di Erasmo, che Antonio, il figliastro, emigrarono in America, dove pensavano di trovare fortuna. Fu Erasmo che fornì sia al figlio che al figliastro il denaro necessario per partire. Tutti e due arrivarono il 13 aprile del 1906 a Philadelphia. Avevano poco più di venti anni e si adattarono in modo diverso ad una realtà certamente difficile. Antonio riuscì a trovare lavoro e a risparmiare un po’ di denaro, così fu a lui che rivolse il fratellastro quando, si rese responsabile di un reato per il quale fu condannato a due anni di carcere, per ottenere la somma necessaria per pagare la cauzione e uscire dal carcere. Antonio gli mise a disposizione la somma necessaria, lo fece uscire di prigione, ma qualche mese dopo se ne tornò in Italia. Pochi giorni dopo il suo ritorno tornò a chiedere al patrigno che fosse annullata la vendita a sua madre dei terreni della nonna, ma anche di essere rimborsato della somma che aveva speso in America per far uscire dal carcere Domenico, pretendendo di riavere la somma di 750 lire. Il patrigno trovò eccessiva la somma, tanto più che suo figlio Domenico gli scriveva dall’America, dove era rimasto, che il fratellastro non aveva speso per lui più di 150 lire. 

         A causa delle pretese di Antonio, il clima in famiglia diventò pesante e si susseguirono liti furibonde, che non sfuggirono ai vicini, i quali assistettero ad un progressivo aggravamento della situazione. Ben presto si passò alle reciproche minacce. Erasmo fu più volte sentito dai vicini gridare, rivolto al Antonio: “Bada, che ti ucciderò!”, e Antonio rispondere: “Se mi uccidi, ti posso uccidere pure io.” Un giorno Erasmo fu sentito gridare: “Se tu muori ucciso, non saprai per opera di chi.” I consigli di sua moglie Costanza Lamone e la nascita di un figlio, non distolsero Antonio dalle sue sempre più pressanti richieste.  Così Erasmo andò a chiedere consiglio nel suo studio ad Orazio Tattoni, uno stimato perito agrario del paese, il quale gli rispose che se il prestito della somma c’era stato, la restituzione era giusta. Erasmo gli fece presente che suo figlio Domenico gli aveva detto che il prestito ammontava a 100 o 150 lire e che comunque era una somma molto inferiore a quella pretesa di 700 lire. Tattoni gli consigliò di informarsi meglio dal figlio sull’entità della somma e intanto di non pagare, ma Erasmo rispose che intendeva pagare, per non andare incontro ad un giudizio. “Allora che ci sei venuto a fare a chiedere consigli?” gli rispose, un po’ piccato, Tattoni.

         Era Diamante che consigliava a suo marito di restituire al figlio Antonio tutta la somma richiesta, anche era se molto alta, ma prima di farlo Erasmo volle andare a chiedere un parere all’impiegato comunale Achille Fini, un amico di cui si fidava molto. “Se la somma è stata effettivamente spesa”, gli disse Fini, “deve essere restituita”. “Ma Domenico dall’America mi ha scritto che la somma spesa da Antonio non è più di un’ottantina di lire” fece presente Erasmo. Qualche giorno dopo, su consiglio della moglie Diamante, decise di dare ad Antonio l’intera somma richiesta, in due volte, tanto per far contenta la moglie, che amava mantenere la pace in famiglia.

         La restituzione della somma non tacitò Antonio, il quale continuò ad insistere sulla sua richiesta riguardo i terreni venduti da sua nonna a sua madre, e le liti non cessarono, anzi, diventarono più aspre dopo che tutti e due, patrigno e figliastro si recarono a Corropoli da un avvocato, per tentare una composizione che non fu raggiunta. Dopo quel tentativo andato a vuoto, Erasmo cominciò a rispondere in modo ancora più deciso alla richiesta del figliastro e avanzò lui una richiesta che Antonio prese assai a male: voleva una ricevuta delle settecento lire che gli aveva restituite. Un giorno ci fu una lite più aspra delle altre e, avendo Erasmo rinnovata la sua richiesta, Antonio gli rispose, in modo che anche i vicini ebbero modo di sentire quella frase minacciosa, che la ricevuta gliel’avrebbe data con un colpo di doppietta all’orecchio.

         Le liti continuarono fino a tutto il mese di ottobre 1909 e la sera del 2 novembre ce ne fu un’altra particolarmente violenta.  Quando finalmente cessò, Antonio Ippoliti si recò nella sua stanza e si coricò. Sua moglie Costanza mise nella culla, accanto letto suo e del marito, il figlioletto, ancora lattante, e tornò in cucina, dove si trovavano anche suo suocero, Erasmo, sua suocera, Diamante, e sua cognata, Angelarosa, che non era sposata. Verso le 21, dopo che si erano coricate anche sua suocera e sua cognata, andò a letto anche lei. Passando davanti alla camera da letto dei suoceri, poté vedere dalla porta aperta che suo suocero stava seduto sulla cassa che si trovava ai piedi del suo letto. La moglie lo invitò a coricarsi, ma lui rispose che non aveva sonno ed uscì sul pianerottolo. Costanza si mise a letto anche lei, e sentì i passi del suocero, sul pianerottolo. Poco dopo scivolò nel sonno e non sentì più nulla.

         La mattina successiva  Angelarosa Ippoliti fu la prima a svegliarsi della sua famiglia. Passando davanti alla porta della camera da letto dei genitori, la trovò insolitamente chiusa. Scese nella stalla e cominciò a rigovernare le bestie. Passarono pochi minuti e si affacciò alla porta sua madre Diamante, che le chiese se avesse visto suo padre. Rispose di non averlo visto. “A letto non c’è” rispose sua madre. “E non si è coricato per nulla questa notte. Dove può essere andato?”. Angelarosa sentì poi che sua madre chiamò un paio di volte il patrigno, e sentì che lo cercava in altre stanze della casa e dava una voce anche sul terreno antistante l’abitazione. Si trovava ancora nella stalla, quando all’improvviso udì sua cognata Costanza che gridava, disperata: “Oh Dio! E’ morto mio marito!” Si precipitò al piano di sopra e accorse nella camera da letto del fratello, dove vide uno spettacolo che la sconvolse e che non avrebbe mai potuto dimenticare. Suo fratello giaceva steso sul letto, tutto insanguinato, con la testa ferita in modo che non si riconoscevano i suoi connotati. Sua cognata Costanza piangeva e si disperava, non riuscendo a contenere la propria emozione, e continuava a gridare: “Oh Dio! Oh Dio! Mio marito è morto!” Il figlioletto, nella culla, piangeva, con singhiozzi striduli ed acuti.

         Era evidente che qualcuno aveva esploso un colpo di fucile da distanza ravvicinata a suo fratello e lo aveva ucciso, dilaniando il suo volto. In quel momento sua madre Diamante si affacciò alla porta della stanza, vide il figlio tutto insanguinato e scoppiò in lacrime, ma facendosi forza per contenere il proprio dolore. Poi abbracciò sua figlia Angelarosa e dolcemente, ma con forza, la trascinò fuori della camera, mentre Costanza continuava a gridare e a disperarsi. Un ultimo sguardo dentro la stanza, prima di lasciarla, consentì ad Angelarosa di constatare che il fucile di suo fratello si trovava al suo posto, appeso ad un chiodo conficcato nella parete di fronte al letto. Chi aveva sparato a suo fratello? Se chi aveva sparato ad Antonio Ippoliti, uccidendolo, aveva portato dall’esterno l’arma con cui aveva sparato, scappando se l’era portata con sé. Se aveva usato il fucile della vittima, visto che si trovava appeso al suo posto abituale, dopo aver sparato doveva averla riappesa al chiodo.

            Il 44enne Camillo Palmarini, fu Alessandro, abitava a poca distanza dalla casa dove era stato ammazzato Antonio Ippoliti. Si era svegliato da non più di mezzora e si trovava a cogliere le ghiande su un suo fondo quando sentì Costanza Lamone gridare: “Aiutatemi! Aiutatemi!” Accorse subito, seguito dalla moglie Giuseppa Di Clemente, in casa Ippoliti e trovò Costanza che piangeva e si disperava, così come Angelarosa Ippoliti, mentre Diamante scopava le scale con un contegno indifferente. Entrato nella camera da letto dove gli fu detto che era avvenuta la disgrazia, Camillo scorse Antonio Ippoliti, morto, ucciso da una schioppettata.  Poco dopo accorsero altri vicini e lui corse a Bellante ad avvertire i carabinieri. (continua)