La moglie del prete

 

Domenico Cornacchia, nativo di Valle Piola, quando nel mese di aprile del 1920 si sposò con Maria Natalina Ciutti, dovette sottostare ad un clausola inserita nel contratto di matrimonio per espressa volontà dello zio prete della giovane, Don Simone Campana. Dovette comperare per 10.000 lire metà della casa del prete, a Villa Gesso, e metà delle sue terre. L’altra metà, sia della casa che delle terre, rimase in proprietà del fratello di Don Simone, Giuseppe, che aveva come domestica Antonietta Ciprietti. Dopo il matrimonio, rimasero a vivere tutti nella stessa casa, Giuseppe, la sua domestica Antonietta, Domenico e sua moglie Maria Natalina. Don Simone, lo zio prete, abitava a circa quaranta metri di distanza dalla casa di suo fratello Giuseppe, ma giornalmente sua nipote Maria Natalina si recava a casa sua per fare i lavori domestici.

     Dopo il matrimonio la gente, a Villa Gesso, cominciò quasi subito a sparlare, avendo notato che la giovane Maria Natalina si tratteneva in casa dello zio prete assai a lungo, anche a tarda ora. Le voci e le malignità infastidirono non poco Domenico Cornacchia, che se ne lamentò con la moglie. Le malelingue in paese dicevano che tra il prete e sua nipote ci fossero delle relazioni illecite, tanto che Maria Natalina non veniva più chiamata la nipote del prete, ma “la moglie del prete”. Sparlavano tutti e le voci arrivarono, sempre più insistenti, anche all’orecchio di Domenico, che divenne sempre più geloso e cominciò a dire alla moglie che a casa dello zio prete non doveva andarci più. La stessa cosa, che cioè sua moglie non doveva andare più a casa dello zio, la disse più volte anche alla domestica del fratello di Don Simone, Antonietta Ciprietti, e ad una vicina, tale Domenica Di Paolo, fu Gioacchino, di anni 48. All’attenzione della gente di Villa Gesso non sfuggirono numerosi episodi che dimostravano come tra Domenico Cornacchia e sua moglie le liti, causate dalle voci di quella tresca incestuosa, fossero sempre più frequenti

     Verso le ore 16 del 22 maggio 1921 Maria De Carolis, maritata Ubaldi, fu Giovanni e di Solidea Di Romano, di anni 31, trovandosi vicino all’abitazione di Domenico Cornacchia udì Maria Natalina pregare suo marito, che aveva in mano un fiasco di vino, di dargli da bere. Il marito le rispose di no, dicendole: “No, perché la notte non mi dai la fregna”.

     Quella stessa sera, verso le 22,30, si trovarono, come tante altre volte, seduti intorno al focolare della casa del fratello del prete, che si era già coricato, Don Simone, sua nipote Maria Natalina, il marito di lei, Domenico Cornacchia e la domestica Antonietta Ciprietti. Si intavolò una discussione sull’istruzione intellettuale delle persone in genere. Domenico Cornacchia sosteneva che nessuna persona era superiore ad un’altra nell’istruzione e che tutte le persone sono uguali, anche il parroco era come lui, che era contadino. Don Simone era di parere contrario: “Un contadino” disse “non può stare all’altezza di un prete, né un bracciante o un ignorante qualsiasi può stare allo stesso livello di un ingegnere, di un avvocato, di un medico”.

     “Un prete, un ingegnere, un avvocato, un dottore” replicò Cornacchia “fanno un mestiere, come lo faccio io e come lo fa un operaio o un bracciante”.      “Ma stai zitto, somaro!” urlò il prete. “Sei uno zappaterra e un cretino!”

     Domenico Cornacchia, a quelle parole, ebbe uno scatto, colpì Don Simone con un manrovescio facendolo cadere riverso a terra, poi piombò su di lui come una furia, cominciando a percuoterlo con dei pugni sulla testa. Maria Natalina e Antonietta intervennero prontamente per cercare di aiutare Don Simone a rialzarsi, ma Domenico Cornacchia continuava a percuoterlo con una mano, tenendolo per la tonaca con l’altra. Le due donne provarono inutilmente a sottrarre il malcapitato alla furia di Domenico, aiutandolo ad uscire dalla cucina.

     “Andate a chiamare mio fratello” disse il prete. La Ciprietti si precipitò nella stanza dove dormiva Giuseppe, attigua alla cucina, e provò a svegliarlo. Ma il fratello del prete, per la tarda età (aveva 68 anni) e per lo stato di ebbrezza in cui si trovava, non si svegliava, sebbene scosso con forza più volte. Alla fine la Ciprietti rinunciò ai suoi tentativi e tornò in cucina e constatò che  la colluttazione tra Domenico e Don Simone ancora continuava. Il primo aveva nuovamente gettato a terra tanto il prete che sua moglie e li percuoteva entrambi, sferrando dei terribili colpi sulle loro teste con una grossa pietra, una delle due che venivano utilizzate come alari nel camino. La Ciprietti notò ad un certo punto che sia il prete che la nipote non davano più segni di vita. Si spaventò e corse fuori dell’abitazione per chiedere aiuto a qualcuno. Andò a casa di Giustino Candelori e Sante Marcangelo, che si trovava alla distanza di circa 40 metri, invitandoli ad accorrere subito, cosa che i due fecero immediatamente, rendendosi subito conto che Don Simone e la nipote giacevano morti, a terra, mentre Domenico Cornacchia si trovava nel vicino salotto, con in braccio la sua bambina di quattro mesi, che baciava piangendo. Poi Domenico uscì e si recò a casa di Candelori, consegnò la bambina alla moglie di questi, Malfina Di Marco e a sua figlia, la 19 enne Rachele Mandina, poi si allontanò, dopo aver loro raccomandato di stare attente a sua figlia.

     Verso l’una e mezzo di pomeriggio del 23 maggio 1921 il maresciallo Ennio Melotti, comandante della stazione dei carabinieri di Teramo, fu avvertito da Giustino Candelori e Sante Marcangelo che a Villa Gesso c’erano stato due morti ammazzati. Insieme con l’appuntato Gaetano Magazzù e con i carabinieri Edmondo Canisi e Leonardo Rignanese si recò sul posto, dove arrivò alle 14. Constatò che Don Simone Campana e sua nipote Maria Natalina Ciutti erano morti e giacevano ancora terra nella cucina dell’abitazione. I carabinieri fecero il verbale e sequestrarono tre pietre di cui Cornacchia si era servito per compiere il duplice omicidio. Un portamonete fu trovato in seno al cadavere della donna con delle banconote e delle monete e un portafogli in tasca al prete. Il primo conteneva complessivamente 132,70 lire, il secondo 218 lire

     Dall’unica persona presente al duplice omicidio, Antonietta Ciprietti, fu Carlo e di Grazia  Di Marco, nata a Campli il 18 gennaio 1870, il maresciallo Melotti si fece dire come si fossero svolti i fatti.  Ipotizzò poi che il duplice omicida, essendo originario di Valle Piola, si fosse rifugiato nella casa paterna e qui lo trovò. Quando Domenico Cornacchia scorse i carabinieri, cercò di saltare da una finestra, ma fu afferrato e tratto in arresto, poi fu tradotto nella caserma dei carabinieri di Teramo e rinchiuso nella camera di sicurezza.    

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     Il processo a carico di Domenico Cornacchia per il duplice omicidio della moglie Maria Natalina Ciutti e dello zio di lei, don Simone Campana, avvenuto il 23 maggio 1921 ebbe inizio nell’aula della Corte d’Assise di Teramo alle 9,30 del 13 maggio 1924. La Corte era presieduta  da Federico Di Niscia e composta da Giuseppe Nardini e Vincenzo Rapese, P.M. era Vincenzo Colangeli, i difensori dell’imputato l’avv. Antonio De Benedictis e l’avv. Luigi Paris. La Giuria era presieduta da Ugo Coppa. Il presidente contestò all’imputato i reati: “Siete accusato di omicidio in persona di vostra moglie, Maria Natalina Ciutti, di Berardo e di Domenica Campana, nata il 25 dicembre 1881, e di omicidio in persona di Simone Campana, fu Vincenzo, nato il 8 giugno 1857, parroco di Villa Gesso e zio della Ciutti. Delitti avvenuti a Villa Gesso il 23 maggio 1921.”

     La difesa pose una questione preliminare, chiedendo di eliminare dal processo un rapporto dei carabinieri, in quanto redatto dopo la fissazione della data del dibattimento. Ma la richiesta fu respinta. Tutta la mattinata trascorse in una serie di altre questioni preliminari e l’imputato nominò un altro difensore, che avrebbe sostituito in caso di impedimento uno dei due già incaricati, così l’avv. Serafino Brigiotti prese posto anche lui sul banco della difesa.

     Nel pomeriggio si proseguì con l’ammissione della costituzione di parte civile della 70enne Domenica Campana, fu Vincenzo, di Villa Gesso, madre di Maria Natalina e sorella di don Simone, nonostante il parere contrario dei difensori dell’imputato, i quali sostennero che non ne aveva diritto, non essendo lei erede delle due vittime. Quale rappresentante legale di Domenica Campana fu designato l’avv. Angelo Camerini. Fu ammesso senza contestazioni a costituirsi parte civile il padre di Maria Natalina, il 66enne Bernardo Ciutti, fu Carlo, di Villa Gesso, rappresentato dall’avv. Francesco Moruzzi. Si passò poi alla deposizione dell’imputato, che fu invitato a declinare le proprie generalità. “Mi chiamo Domenico Cornacchia” disse “fu Sabatino e fu Maria Attori, sono nato a Torricella Sicura il 7 dicembre 1886 e sono residente a Villa Gesso di Teramo.” Sul duplice delitto che gli veniva contestato si dichiarò innocente, ritenendo di essere stato provocato da sua moglie e dallo zio di lei e di aver perso la testa in seguito alle voci sempre più ricorrenti su una loro tresca, che sarebbe risalita addirittura ai tempi precedenti il suo matrimonio con la donna.

     Deposero poi le parti lese Berardo Ciutti, Domenica Campana, e altri famigliari delle vittime: le quattro sorelle e il fratello di Maria Natalina, la 40enne Irene, maritata Di Francesco, la 33enne Luisa, residente alla Nocella di Campli, la 30enne Rosina, maritata Ciccocelli, residente alla Nocella di Campli, la 30enne Bettina, gemella di Rosina (presso la quale abitava non essendo ancora coniugata?, che faceva la domestica a Teramo, e il 47enne Raffaele contadino di Villa Gesso. Vennero poi letti gli atti generici.

     Nella seconda udienza del processo, che si svolse il 14 maggio, vennero sentiti numerosi testi, al mattino il maresciallo dei carabinieri Ennio Melotti, di Isidoro, di anni 39, nativo di Bologna, che riferì le circostanze dell’arresto dell’imputato e l’esito delle indagini svolte nell’immediatezza del reato, la 53enne Antonietta Ciprietti, fu Carlo, di anni 53, nata a Campli, residente a Villa Gesso, domestica dell’ucciso don Simone Campana, che si era trovata presente al duplice omicidio e la 25 Malfina Di Marco, contadina di Villa Gesso e vicina di casa delle due vittime. Quest’ultima confermò che Domenico Cornacchia, dopo aver ucciso sua moglie e don Simone era andato a casa sua e le aveva consegnato la figlioletta, raccomandandole di starle attenta. Nel pomeriggio confermarono la circostanza il marito di Malfina, il 29enne Giustino Candelori, e il fratello di suo marito, il 35enne Antonio. Sempre nel pomeriggio del 14 maggio furono sentiti dalla Corte numerosi residenti di Villa Gesso e tutti confermarono le voci sulla relazione intima tra Maria Natalina e lo zio prete, che costituiva grave scandalo in paese e risaliva a prima del matrimonio della giovane con l’imputato. In questi termini si pronunciarono, tra gli altri, il 29enne Sante Di Marcangelo, che insieme a Giustino Candelori era andato dopo il fatto ad avvertire i carabinieri, il 39enne Fortunato Bilanzola, contadino, il 63enne Giacomo Diodati, 63, la 43enne Rosa Di Marcangelo, casalinga, la 62enne Cecilia Silverio, contadina, e il 64enne Giovanni Orfei, contadino. Tutti confermarono che la tresca tra Maria Natalina e lo zio era così notoria in paese, che tutti chiamavano lei “la moglie del prete”, non la nipote. Il 47enne don paolo Bruni, parroco di Putignano, nella sua deposizione parlò a lungo di don Simone Campana, mettendone in risalto il difficile carattere, arrogante e prepotente, ma disse di non sapere niente dei suoi presunti rapporti carnali con la nipote. Furono sentiti molti altri testi, fra i quali la 67enne Maria Pulli, in Carlucci, contadina di Piano della Lenta di Putignano, il 73enne Carlo Angelini, proprietario di Collicelli di Campli, il 68enne Luigi Bilanzola, contadino di Acquasanta di Rocca Santa Maria; il 45enne Domenico D’Angelantonio, guardia daziaria di Teramo.

     Nella terza udienza, il 15 maggio, la parte civile chiese, e la difesa si associò, un sopralluogo per dimostrare la veridicità di alcuni testi, ma il Presidente non accolse la richiesta, ritenendo il sopralluogo non necessario. Dopo di che, il P.M. Vincenzo Colangeli svolse la sua requisitoria, conformandosi alle conclusioni della sentenza della sezione di accusa e quindi sostenendo la volontarietà del duplice omicidio, senza il riconoscimento della provocazione grave, e solo in subordine il vizio di mente per ubriachezza. Nel pomeriggio furono poste le questioni ai giudici e si verificò uno scontro assai aspro tra i difensori dell’imputato e la pubblica accusa. Secondo il P.M. era evidente che non ricorrevano l’eccesso di difesa e la sorpresa per il flagrante adulterio. Chiese pertanto che l’ipotesi non fosse inserita tra le questioni da porre ai giurati. Il Presidente osservò che, se vi era incompatibilità tra legittima difesa e la sorpresa in flagranza dell’adulterio, si ravvisava uguale incompatibilità tra la sorpresa in flagranza e l’eccesso di difesa, perché, a prescindere che la sorpresa in flagrante adulterio non era che una forma speciale di provocazione gravissima, vi era pur sempre dissonanza tra l’elemento soggettivo, ossia lo stato d’animo e l’intenzione di chi aveva commesso il delitto, e l’eccesso di difesa. Respinse perciò l’istanza e mantenne ferme le questioni già formulate.

     Nella quarta udienza, il 16 maggio, la parte civile eccepì che l’imputato non poteva essere difeso da tre imputati. Ma l’avv. Brigiotti era solo il sostituto, venne replicato. Dopo un altro scontro anch’esso assai aspro, il Presidente decretò che non vi era nulla da deliberare e l’avv. Brigiotti non venne escluso. Nel pomeriggio svolse la sua requisitoria il P.M. dopo di che il processo venne sospeso.

     Nella quinta udienza, il 19 maggio, svolsero le loro arringhe al mattino il difensore dell’imputato, l’avv. Luigi Paris e nel pomeriggio il rappresentante di parte civile, l’avv. Francesco Moruzzi. Nella sesta ed ultima udienza, il 20 maggio, parlarono gli altri due difensori, l’avv. Antonio De Benedictis e l’avv. Serafino Brigiotti. La Giuria, rispondendo ai quesiti, giudicò Domenico Cornacchia colpevole di duplice omicidio, ma riconobbe la provocazione grave. Il P.M. subito dopo prese la parola e chiese la condanna a 13 anni e 9 mesi di reclusione, con il condono di 6 mesi. La sentenza della Corte accolse la richiesta del P.M. L’imputato presentò ricorso, ma la Cassazione (Presidente Mannini, P.M. Bertini)  il 3 aprile 1925 lo respinse, confermando la sentenza di primo grado. A Domenico Cornacchia vennero in seguito condonati un anno il 16 novembre 1925 e un altro anno il 23 luglio 1930. Due anni dopo, nel dicembre 1932, tornò in libertà. Aveva compiuto da pochi giorni 46 anni e poteva ancora rifarsi una vita, ma soprattutto doveva dedicarsi alla figlioletta, che, orfana di madre e con il padre in carcere, era stata allevata da alcuni parenti.